Come è cambiata la mia vita – la centralità della chiesa locale

 

Fin dalla mia conversione, durante gli anni del liceo, la chiesa locale ha sempre giocato un ruolo importante nella mia vita.

Ricordo che durante la mia prima estate da credente ho passato alcune (ok… molte!) ore nella biblioteca della chiesa, compilando statistiche che confrontavano la crescita del numero di membri riconosciuti con il calo della frequenza ai culti. Terminata la ricerca, avevo fatto un grafico che, vista l’età pre-tecnologica in cui ci trovavamo, consisteva semplicemente in un poster in cui avevo tracciato con attenzione l’andamento delle adesioni alla chiesa e della frequenza ai culti, che divergevano soprattutto nel periodo tra gli anni ’40 e ’50. Anche se avevo dedicato ore ed ore a quel poster – e ai dati che presentava – ebbe ben breve durata: l’avevo appeso su uno dei muri della chiesa senza autorizzazione (non ci avevo pensato!), e fui velocemente e debitamente “autorizzato” a toglierlo.

Man mano che crescevo nella fede e nella mia comprensione della grazia di Dio durante gli anni dell’università e del seminario teologico, cresceva in me anche la preoccupazione per la presenza dei credenti cosiddetti “nominali”. Molte “conversioni” mi sembravano assolutamente false e diventai sospettoso nei confronti di queste persone così verbalmente sicure eppure così inattive e nei confronti di un tipo di evangelismo che le aveva generate.

 

Tuttavia, nel corso dei miei studi di dottorato, la mia mente cominciò a focalizzarsi ancora di più sull’argomento della chiesa e specialmente sulla centralità della chiesa locale. Ricordo un giorno d’aver avuto un’accesa discussione con un amico che lavorava per un ministero paraecclesiale. Frequentavamo la stessa chiesa: io ne ero diventato membro subito dopo essermi trasferito in città, mentre lui aveva semplicemente scelto di frequentarla qualche anno più tardi. Veniva solo per il culto domenicale e arrivava sempre a metà, appena prima del sermone, così un giorno decisi di chiedergli spiegazioni.

Mi rispose con la sua solita onestà e trasparenza: “Non traggo niente dal resto del culto”. “Hai mai pensato di diventare membro della chiesa?”, gli chiesi. Genuinamente sorpreso, con una risata innocente mi rispose: “Diventare membro? Onestamente non capisco perché dovrei. So perché sono qui sulla terra… queste persone mi rallenterebbero soltanto”. Queste parole suonano gelide se le rileggo, ma furono pronunciate con l’ardore tipicamente genuino e umile di un evangelista dotato che non vuole sprecare neanche un minuto del tempo che gli ha dato il Signore. Voleva usare il suo tempo al meglio e così tutte le preoccupazioni e i fastidi legati ad un’effettiva adesione a una chiesa gli sembravano assolutamente irrilevanti e inutili.

“Mi rallenterebbero”… queste parole risuonavano forti nella mia mente. Nella mia testa si susseguirono diversi pensieri, ma poi gli chiesi solamente: “Non hai mai pensato che se ti unisci a queste persone forse potresti esserne rallentato, ma magari potresti aiutarle ad accelerare? Hai mai pensato che ciò potrebbe far parte del piano di Dio per loro e anche per te?”. La conversazione proseguì ma, secondo il mio pensiero, era proprio questo il punto cruciale: Dio vuole usarci nelle vite gli uni degli altri, anche quando ci sembra che ciò potrebbe costarci molto dal punto di vista spirituale.

 

In quello stesso periodo, grazie ai miei studi sul puritanesimo, ebbi l’opportunità di leggere molto a proposito dei crescenti dibattiti teologici sulla conduzione della chiesa durante il regno di Elisabetta e dei primi Stuart. Il grande dibattito durante l’assemblea di Westminster mi interessava molto: ero attratto dalle affermazioni di alcuni degli “indipendenti” o “congregazionalisti” secondo cui, in sostanza, l’autorità pastorale doveva andare di pari passo con la relazione pastorale. A sostegno della loro idea, essi dicevano che la chiesa locale doveva avere l’ultima parola in materia di disciplina e dottrina; quest’argomentazione mi sembrava biblicamente convincente (si veda Matteo 18:17; 1 Corinzi 5; 2 Corinzi 2; 2 Timoteo 4). Il ruolo sia del pastore sia della chiesa sembrava crescere per importanza nella mia mente, visto il modo in cui il credente doveva vivere la sua vita cristiana.

Poi, nel 1994, diventai pastore. Sebbene avessi sempre rispettato il ruolo degli anziani e avessi servito come tale in due chiese, diventare l’unico anziano riconosciuto di una chiesa mi portò a riflettere maggiormente sulla questione dell’importanza di quell’incarico. Passi come Giacomo 3:1 (“…ne subiremo un più severo giudizio”) ed Ebrei 13:17 (“…deve renderne conto”) incombevano sulla mia mente. Le circostanze erano tali da sottolineare l’importanza che Dio dà alla chiesa locale. Ricordo di aver letto una citazione di John Brown, che, in una lettera di consigli paterni a uno dei suoi pupilli appena nominato anziano di una piccola chiesa, scrisse: “Conosco la vanità del tuo cuore e so che ti sentirai mortificato dalle dimensioni ridotte della tua chiesa in confronto a quelle dei tuoi fratelli, ma fidati delle parole di un vecchio uomo: quando dovrai renderne conto davanti al trono del giudizio del Signore Gesù Cristo, ciò che hai ti sembrerà più che sufficiente”. Nel guardare le persone che si trovavano sotto la mia responsabilità, sentivo tutto il peso di doverne rendere conto a Dio.

Questo pensiero continuò a ripresentarsi regolarmente alla mia mente durante il mio lavoro settimanale. Predicando sui vangeli e poi sulle epistole, avevo più volte occasione di perfezionare il concetto che avevo dell’amore cristiano, osservando che mentre alcuni passi insegnano veramente che il cristiano deve amare tutti (ad es. 1 Tessalonicesi 3:12), molti dei classici passi usati per insegnare quest’idea, in realtà parlano solo dell’amore reciproco tra credenti. Ricordo di aver predicato su Matteo 25 dicendo che il comandamento di offrire bicchieri d’acqua fresca si riferisce proprio a “questi miei minimi fratelli” e che, alla fine del culto, una persona venne a dirmi che avevo rovinato il “suo” versetto ispiratore!

 

L’amore è soprattutto locale e quindi la chiesa, o congregazione locale, è il luogo in cui dobbiamo manifestare quest’amore, così che tutto il mondo possa vederlo.

 

Ad ogni modo, ai miei occhi questi passi che contenevano l’espressione “gli uni gli altri” cominciarono a prendere vita e a incarnare le verità teologiche che conoscevo bene riguardanti la cura del Signore per la chiesa. Mentre predicavo su Efesini 2-3, capii che la chiesa è il centro del piano di Dio, per la manifestazione della sua saggezza alle potenze celesti. Quando Paolo parlò agli anziani di Efeso, riferendosi alla chiesa disse che Dio l’aveva “acquistata con il proprio sangue” (Atti 20:28). Sulla strada per Damasco, quando fu interrotta l’opera di persecuzione di Saulo, il Cristo risorto non gli chiese perché perseguitasse i cristiani o la chiesa, bensì Cristo si identificava a tal punto con la sua chiesa che la sua domanda accusatoria fu “perché mi perseguiti?” (Atti 9:4). Evidentemente la chiesa era al centro del piano eterno di Dio, del suo sacrificio e della sua continua attenzione.

Forse questa può sembrare più una spiegazione del valore dell’ecclesiologia che non della chiesa locale ma, predicando settimana dopo settimana, capii che la decisione di Tyndale di tradurre ecclesia con il termine “congregazione” era giusta! L’importanza della rete di relazioni che costruisce una chiesa locale è il contesto in cui viviamo il nostro essere discepoli.

L’amore è soprattutto locale e quindi la chiesa, o congregazione locale, è il luogo in cui dobbiamo manifestare quest’amore, così che tutto il mondo possa vederlo. Gesù diede questo insegnamento in Giovanni 13:34-35: “Io vi do un nuovo comandamento: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri”. Ho visto amici e parenti allontanarsi da Cristo perché sentivano che questa chiesa o quell’altra erano posti terribili, mentre altri si sono avvicinati perché avevano visto proprio quell’amore che Gesù aveva insegnato e incarnato – l’amore gli uni per gli altri, lo stesso amore disinteressato che aveva manifestato lui stesso – e ne erano stati naturalmente attratti. Così la congregazione – funzionando da cassa di risonanza della Parola – assunse un ruolo più centrale nella mia idea di evangelismo e di come pregare e fare piani per un’evangelizzazione.

 

La chiesa locale è diventata anche più centrale nella mia idea su come discernere se la conversione di un fratello sia vera o meno e quindi su come dobbiamo esserne noi stessi sicuri. Ricordo di essermi bloccato su 1 Giovanni 4:20-21 mentre mi preparavo per una predicazione: “Se uno dice: «Io amo Dio», ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto […] chi ama Dio ami anche suo fratello”. Giacomo 1 e 2 trasmette lo stesso messaggio; quest’amore non è un optional.

Più recentemente, queste riflessioni sulla centralità della chiesa locale mi hanno portato a provare un rinnovato rispetto per la disciplina nella chiesa, purché sia formativa e correttiva. È chiaro che se dobbiamo dipendere l’uno dall’altro nelle nostre chiese, la disciplina deve far parte del nostro discepolato e se dobbiamo esercitare quel tipo di disciplina descritto nel Nuovo Testamento, dobbiamo conoscerci, dedicarci gli uni agli altri e aprirci. Dobbiamo anche fidarci di chi è in posizioni preminenti: questa fiducia nell’autorità in famiglia, in casa e in chiesa si negozia prima di tutto a livello locale. Se non capiamo questo punto e cominciamo a disprezzare e provare risentimento per le nostre autorità, rischiamo di ricalcare ciò che avvenne al momento della caduta dell’uomo. Di conseguenza, se capiamo questa verità potremmo abbracciare maggiormente la realtà dell’opera di grazia compiuta da Dio nel ristabilire la sua relazione con noi – una relazione in cui amore e autorità si uniscono.

 

Tutto sommato capisco perché nel passato i cristiani abbiamo visto nella scarsa frequenza ai culti un grave problema. Penso anche di capire quale danno possa portare da molti punti di vista una grossa divergenza tra l’andamento delle adesioni alla chiesa e quello della frequenza ai culti. Quando si è cominciato a considerare la frequentazione degli incontri di chiesa non più una questione d’interesse dell’intera congregazione bensì una decisione privata (“Non è affar nostro!”), è cominciato il caos nelle nostre chiese e nella vita di chi un tempo le frequentava.

Ci sono ancora molte domande che riempiono la mia mente riguardo a seminari oppure riguardo a “leader cristiani” che ogni fine settimana si trovano in un posto diverso, pastori che non capiscono l’importanza della chiesa locale, povere pecore che vagano da una chiesa all’altra come dei “consumatori” frustrati.

Dio volendo, il prossimo decennio sarà interessante quanto quello appena passato.

 

 

Nota dell’editore: Questo articolo è apparso la prima volta nel numero di gennaio/febbraio 2002 di Modern Reformation ed è stato revisionato e riproposto qui previa concessione. È possibile consultare online la rivista Modern Reformation su www.modernreformation.org.

 

 

(Traduzione a cura di Cristina Baccella)

Tematiche: Chiesa, Crescita spirituale, Evangelizzazione, Ministero, Predicazione, Teologia, Vita Cristiana

Mark Dever

Mark Dever 

 

E’ pastore della Capitol Hill Baptist Church a Washington, D.C. e autore di molti libri, incluso Discepolare (Ed Coram Deo) Nove segni caratteristici di una chiesa sana (Alfa Omega). Puoi saperne di più sul sito www.9marks.org o puoi seguirlo su Twitter.

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