Predicava più di quanto dormisse

 

GEORGE WHITEFIELD (1714-1770)

 

I fatti sulla predicazione di George Whitefield come evangelista itinerante del XVIII secolo sono quasi incredibili. Possono essere veri? A giudicare dalle molteplici attestazioni dei suoi contemporanei—e di biografi favorevoli e sfavorevoli a lui—sembrano esserlo.

 

Dal suo primo sermone all’aperto del 17 febbraio del 1739, all’età di 24 anni, ai minatori di carbone di Kingswood vicino a Bristol, in Inghilterra, fino alla sua morte trent’anni dopo, avvenuta il 30 settembre del 1770, a Newburyport, Massachusetts (dove è sepolto), la sua vita è stata una predicazione quasi quotidiana.

Si ritiene che abbia parlato circa mille volte all’anno per trent’anni. Questo includeva almeno diciottomila prediche e dodicimila conferenze ed esortazioni. Il ritmo quotidiano che ha mantenuto per trent’anni ha fatto sì che, per molte settimane, parlasse più di quanto dormisse.

 

Una predicazione fenomenale

Tenete presente che la maggior parte dei suoi messaggi sono stati rivolti a raduni di migliaia di persone. Per esempio, nella primavera del 1740, predicò a Society Hill a Philadelphia due volte al mattino a circa seimila persone e la sera a quasi ottomila. Il giorno dopo, parlò a “più di diecimila presenti”, e fu riferito in uno di questi eventi che la sua lettura: “Aprì la bocca e insegnò loro”, venne udita fino a Gloucester, a ben tre km di distanza (George Whitefield, 1:480). E ci sono stati momenti in cui la folla ha raggiunto più di ventimila presenti.

 

A ciò si aggiunga il fatto che egli viaggiava continuamente, a cavallo, in carrozza o su una nave. Copriva ripetutamente la lunghezza e la larghezza dell’Inghilterra. Viaggiava e parlava regolarmente in tutto il Galles. Ha visitato due volte l’Irlanda dove è stato quasi ucciso dala folla procurandosi una cicatrice sulla fronte per il resto della sua vita. Viaggiò quattordici volte in Scozia e andò in America sette volte, fermandosi una volta alle Bermuda per undici settimane—tutto per predicare, non per riposare.

 

Whitefield è stato un fenomeno non solo della sua epoca, ma di tutta la storia di duemila anni di predicazione cristiana. Non ha avuto pari né per il suo ritmo di predicazione né per l’estensione geografica raggiunta tramite essa, inoltre l’impatto sugli ascoltatori ha avuto una portata immensa sulla loro attenzione fino a al raggiungimento della loro conversione. J.C. Ryle ha ragione: “Nessun predicatore ha mai mantenuto la propria presa sui suoi ascoltatori così completa come Whitefield ha fatto per trentaquattro anni. La sua popolarità non è mai diminuita” (Select Sermons of George Whitefield, 32).

 

Eloquenza e unzione

Da dove provengono tale potere e tale popolarità? Da una parte, il potere di Whitefield era frutto del suo potere naturale d’eloquenza e dall’altro era frutto del potere spirituale di Dio di convertire i peccatori e trasformare le città.

 

Non c’è motivo per dubitare che Whitefield fosse lo strumento di Dio per la salvezza di migliaia di persone. Non dubito che il suo contemporaneo Henry Venn avesse ragione quando disse: “[Whitefield] non appena apriva la bocca per predicare, Dio diede una straordinaria benedizione sulla sua parola” (Select Sermons of George Whitefield, 29). Così, la spiegazione dell’impatto fenomenale di Whitefield fu l’eccezionale unzione di Dio sulla sua vita.

 

Un altro aspetto che impariamo è che Whitefield teneva in pugno persone che non credevano ad una sola parola dottrinale da lui detta. In altre parole, dobbiamo fare anche i conti con le sue doti oratorie naturali. Come dobbiamo considerare questi doni in relazione alla sua efficacia? Diceva Benjamin Franklin, che amava e ammirava Whitefield—e rifiutava totalmente la sua teologia:

 

Ogni accento, ogni enfasi, ogni modulazione della voce, erano talmente ben impostate, e ben posizionate che senza essere interessati all’argomento, non si poteva fare a meno di essere   interessati al discorso: un favore più o meno dello stesso tipo di quello ricevuto da un eccellente brano musicale. (The Divine Dramatist, 204)

 

Whitefield: “Sia dimenticato il mio nome, sia calpestato sotto i piedi di tutti gli uomini, così Gesù potrà essere glorificato”.

 

Uno dei contemporanei di Whitefield, Alexander Garden della Carolina del Sud, non era ottimista sulla purezza delle motivazioni di Whitefield o sulla probabilità che i suoi effetti fossero decisamente soprannaturali. Credeva che Whitefield “avrebbe prodotto gli stessi effetti, sia che avesse recitato la sua parte dal pulpito sia da un palco”… Non era l’Argomento, ma l’Argomentatore, non le dottrine che presentava, ma l’accettabilità della presentazione”, così spiegava alle folle senza precedenti che accorrevano per sentirlo predicare (“The Grand Sower of the Seed”, 384).

 

In un certo senso, non dubito che Whitefield stesse “agendo” come predicava. Vale a dire che prendeva la parte dei personaggi nel dramma delle sue prediche e riversava tutta la sua energia—il suo sforzo poetico—nel rendere reali le loro parti.

 

La capacità di rendere reale la realtà

Ma la domanda è: perché Whitefield recitava? Perché era così pieno di azione e di pathos? Come sostiene il biografo Harry Stout, si limitava a “esercitare un mestiere religioso” in nome della fama e del potere? (The Divine Dramatist, xvii).

 

Credo che la risposta più significativa venga da qualcosa che lo stesso Whitefield ha detto a proposito della recitazione in un sermone a Londra. In effetti, penso che sia una chiave per capire il potere della sua predicazione—e di tutte le prediche. James Lockington era presente a questo sermone e lo ha registrato testualmente. Parlando di Whitefield disse:

 

“Vi racconterò una storia. L’arcivescovo di Canterbury nel 1675 conobbe il signor Butterton, un’attore. Un giorno l’Arcivescovo… disse a Butterton… Vi prego di informarmi, signor Butterton, qual è la ragione per cui voi attori sul palcoscenico potete influenzare le vostre platee parlando di cose immaginarie, come se fossero reali, mentre noi in chiesa parliamo di cose reali, che le nostre congregazioni ricevono solo come se fossero  immaginarie? ‘Noi attori sul palcoscenico parliamo di cose immaginarie come se fossero reali e voi sul pulpito invece parlate di cose reali come se invece fossero immaginarie'”.

 

Perciò”, aggiunge Whitefield, “Io urlerò, non sarò un predicatore dalla bocca di velluto”.  (The Divine Dramatist, 239–40)

 

Questo significa che ci sono tre modi di parlare. In primo luogo, si può parlare di un mondo irreale, immaginario, come se fosse reale—questo è ciò che fanno gli attori in una commedia. Secondo, si può parlare di un mondo reale come se fosse irreale—questo è ciò che fanno i pastori senza cuore quando predicano su cose gloriose in un modo che non sembra così terrificanti o meraviglioso come è. E terzo, si può parlare di un mondo spirituale reale come se fosse meravigliosamente, terribilmente, magnificamente reale—perché lo è.

 

Mettere in scena degli attori

Quindi, se chiedeste a Whitefield: “Perché predichi in questo modo?”, probabilmente vi avrebbe risposto: “Credo che quello che leggo nella Bibbia sia reale”. Quindi permettimi di azzardare questa affermazione: George Whitefield non era un attore represso, guidato dall’amore egoistico per l’attenzione. Piuttosto, si impegnava consapevolmente a mettere in scena gli attori perché aveva visto ciò che in definitiva è reale.

 

Il suo sforzo oratorio non non sostituiva la rivelazione e il potere di Dio, ma era al loro servizio. Agiva con tutte le sue forze non perché ci volevano grandi espedienti o trucchi per convincere la gente dell’irreale, ma perché aveva visto qualcosa di più reale di quanto gli attori sul palcoscenico londinese avessero mai conosciuto.

 

Non nego che Dio usasse vasi naturali per mostrare la sua realtà soprannaturale. E nessuno nega che George Whitefield fosse uno stupendo contenitore naturale. Era animato, affabile, affidabile, eloquente, intelligente, empatico, determinato, desideroso di fare del bene, avventuroso, e aveva una voce come una tromba che poteva essere sentita da migliaia di persone all’aperto. Tutto questo, oserei dire, avrebbe fatto parte del talento naturale di Whitefield anche se non fosse nato di nuovo.

 

Ma qualcosa è accaduto a Whitefield nella primavera del 1735, quando aveva 20 anni, che ha reso tutti questi doni naturali subordinati ad un’altra realtà: la gloria di Cristo nella salvezza dei peccatori.

 

Whitefield nasce di nuovo

Durante una pausa dalla scuola, l’amico di Whitefield, Charles Wesley, gli diede una copia del libro di Henry Scougal The Life of God in the Soul of Man. Quando lesse le parole di Scougal sul fatto che la vera religione è “un’unione vitale in un figlio di Dio, Cristo formatosi nel cuore”, gli si aprì un mondo nuovo. “Oh, quale modo di vivere una vita devota ha fatto irruzione nella mia povera anima”, testimoniò più tardi Whitefield. “Oh, di quale gioia—una gioia indicibile—era piena di grande gloria, era la mia anima piena” (Revived Puritan, 26).

 

Whitefield: “Io sono il più grande dei peccatori, e quindi il più adatto a predicare la grazia libera a un mondo che giace sotto il potere del maligno”.

 

La potenza, la profondità e la realtà soprannaturale di quel cambiamento in Whitefield è qualcosa con cui Alexander Garden—e altri che riducono l’uomo alle sue capacità naturali—non hanno fatto abbastanza i conti. Mediante la nuova nascita, a Whitefield è stata data la capacità soprannaturale di vedere ciò che era reale. La sua mente si è aperta alla nuova realtà. Questo significa che la recitazione di Whitefield—la sua predicazione appassionata, energica, con tutto il suo animo—era dovuta al risultato di avere gli occhi per vedere “la vita e la luce e la potenza dall’alto” (Select Sermons of George Whitefield, 15). Egli vedeva i fatti gloriosi del Vangelo come reali. Meravigliosamente, terribilmente, magnificamente reali. Per questo gridava: “Non sarò un predicatore dalla bocca di velluto”.

 

Nessuna delle sue capacità naturali è svanita. Furono tutti resi “prigionieri per obbedire a Cristo” (2 Corinzi 10:5). “Sia dimenticato il mio nome, sia calpestato sotto i piedi di tutti gli uomini, così Gesù potrà essere glorificato” (George Whitefield, 2:257).

 

Proprietario di schiavi

La nuova nascita, tuttavia, non rese Whitefield un uomo perfetto. Infatti, uno degli effetti della lettura della storia, e della biografia in particolare, è la persistente scoperta di contraddizioni e paradossi del peccato e della rettitudine nelle persone sante. Whitefield non fa eccezione, e sarà più giustamente onorato se saremo onesti sulla sua cecità, sulla sua fedeltà dottrinale e sulla sua bontà. La cecità di gran lunga più evidente della sua vita—e ce ne sono state altre—è stata il suo sostegno alla schiavitù americana dei neri.

 

Anche se si sostiene che il modo biblico di andare oltre la schiavitù (nel Nuovo Testamento è tollerata, ma implicitamente contestata, Luca 4:18; Atti 17:26; 1 Corinzi 7:21; 2 Corinzi 3:17; 1 Timoteo 1:10; Filemone 1:16; Efesini 6:9; Galati 3:28; 5: 1; Colossesi 3:11; Apocalisse 5:9) è di contestualizzarsi al periodo del XVIII secolo, migliorandola con gentilezza (come fece Whitefield), si deve ancora fare i conti con il fatto che Whitefield, per quanto ne sappiamo, non ha fatto i conti con l’istituzione stessa come biblicamente insegnata.

 

Prima che fosse legale possedere schiavi in Georgia, Whitefield si era battuto per la legalizzazione della schiavitù al fine di rendere più accessibile l’orfanotrofio che aveva costruito. Nel 1752, la Georgia divenne una colonia reale, la schiavitù fu legalizzata e Whitefield si unì alle fila dei proprietari di schiavi. Questo, di per sé, fu tragico ma non insolito. La maggior parte dei proprietari di schiavi si professava cristiana. Ma nel caso di Whitefield le cose erano più complesse. Non si adattava allo stampo dei ricchi proprietari di piantagioni del Sud.

 

Whitefield si diceva disposto ad attaccare la “frusta” dei coltivatori del Sud se essi disapprovavano la sua predicazione della nuova nascita per gli schiavi (The Divine Dramatist, 100). Dalla Georgia alla Carolina del Nord a Philadelphia, Whitefield ha seminato il seme dell’uguaglianza attraverso l’evangelizzazione e l’educazione di cuore—sia che sentisse o meno una contraddizione nelle sue opinioni.

 

“Whitefield si impegnava consapevolmente nel mettere in scena gli attori perché aveva visto ciò che in definitiva è reale”.

 

La predicazione di Whitefield agli schiavi fece infuriare molti proprietari di schiavi. Quasi tutti hanno resistito all’evangelizzazione e all’istruzione degli schiavi. Sapevano intuitivamente che l’istruzione portava l’uguaglianza, che minava l’intero sistema. E l’evangelizzazione avrebbe comportato che gli schiavi potessero diventare figli di Dio, il che significava che erano fratelli e sorelle dei loro padroni, il che avrebbe anche minato l’intero sistema.

Ci si chiede se ci fosse un brontolio nell’anima di Whitefield, perché egli percepiva davvero dove l’evangelizzazione radicale avrebbe portato.

 

Egli rese pubbliche le sue censure sui proprietari di schiavi e pubblicò parole come queste: “Dio ce l’ha con voi” per aver trattato gli schiavi “come se fossero dei bestie”. Se questi schiavi si ribellassero, “tutti gli uomini buoni saprebbero riconoscere che il giudizio sarebbe giusto” (The Divine Dramatist, 101–2). Questo era devastante. Ma apparentemente, Whitefield non percepiva appieno le implicazioni di ciò che diceva.

 

Ciò che sembra chiaro è che la popolazione degli schiavi, in gran numero, amava Whitefield. Quando morì, furono i neri a esprimere il più grande dolore in America. Più di ogni altra figura del XVIII secolo, Whitefield ha stabilito la fede cristiana nella comunità degli schiavi. Qualunque altra cosa abbia fallito, per questo servizio gli furono profondamente grati.

 

Phyllis Wheatley (1753-1784), l’ex schiava e prima donna afroamericana a pubblicare un libro di poesia in America, elogiò Whitefield in una poesia popolare dell’epoca. Conteneva questi versi:

 

Predicatori, prendete lui [Cristo] come il vostro tema gioioso:

Prendete LUI, “miei cari AMERICANI”, diceva,

Siano le vostre suppliche vicini al suo gentile petto deposto:

PrendeteLo voi africani, egli vi desidera;

Salvatore imparziale, è il suo titolo che gli spetta;

se vorrete chinarvi a camminare sulla via della grazia,

Sarete figli, re e sacerdoti di Dio.

 

Per quanto seriamente Whitefield abbia sbagliato, Dio usò il bene che aveva fatto, il Cristo che aveva predicato, e fu il Cristo degli “africani”, un “Salvatore imparziale” e ciò significa essere figli e re a Dio.

 

Adatto per predicare la grazia gratuita

Così, il più grande predicatore del Settecento, forse nella storia della chiesa cristiana, è stato una figura paradossale. Rimaneva in lui, come lui stesso si confessava così liberamente, il peccato. E questo è ciò che abbiamo trovato in ogni anima umana su questa terra—tranne una. Ed è per questo che le nostre vite sono destinate a indicare lui—quell’uomo senza peccato. La perfetta obbedienza di Cristo, non la nostra, è il fondamento della nostra accettazione con Dio. Se allora, il nostro peccato, così come la nostra giustizia, può indirizzare le persone lontano da noi stessi verso Cristo, ci rallegreremo anche se ci pentiremo.

 

“Il ritmo quotidiano di Whitefield che teneva, per molte settimane, significava che parlava più di quanto non dormisse”.

 

“Non conosco nessun’altra ragione”, disse Whitefield, “per cui Gesù mi ha messo nel ministero, se non perché sono il più grande dei peccatori, e quindi il più adatto a predicare la grazia gratuita a un mondo che giace del maligno” (Revived Puritan, 157-58). Sì. Ma come abbiamo visto, Dio non solo farà ridondare la sua indegnità alla grazia di Dio, ma anche la sua oratoria appassionata, la sua naturale drammaticità, il suo naturale talento drammatico e il suo sforzo poetico. Anche questo, per quanto imperfetto, senza dubbio contaminato da motivi imperfetti, Dio ha fatto dello strumento della sua opera soprannaturale di salvezza.

 

Nessuna eloquenza può salvare un’anima. Ma il valore della salvezza e il valore delle anime spinge i predicatori a parlare e scrivere con tutte le loro forze in modo da parlare così: “C’è di più, c’è così tanta bellezza—così tanta gloria—per voi da vedere più di quanto io possa dire”.

 

 

Traduzione a cura di Andrea Lavagna

 

Tematiche: Biografie

John Piper

John Piper

È il fondatore di Desiring God, per il quale ricopre anche il ministero di insegnante, inoltre, è il rettore del Bethlehem College & Seminary. Ha servito per trentatré anni come pastore presso la chiesa battista Bethlehem Baptist Church di Minneapolis, in Minnesota e ha scritto più di cinquanta libri, tra cui e Non sprecare la tua vita (Ed Coram Deo), Rischiare è giusto (Ed Coram Deo), Coronavirus e Cristo (Ed Coram Deo), Stupefatto da Dio (Ed Coram Deo) e Desiderare Dio.

© desiringgod.org, © Coram Deo

Il presente articolo può essere utilizzato solo facendone previa richiesta a Coram Deo. Non può essere venduto e non si può alterare il suo contenuto.