Quattro domande (e risposte) sull’autorità e sul copricapo

 

 

D: Che cosa significa che il marito è il capo di sua moglie?

R: “Ma voglio che sappiate che il capo di ogni uomo è Cristo, che il capo della donna è l’uomo e che il capo di Cristo è Dio” (1 Cor. 11:3).

Il versetto 3 traccia una serie di legami che si sovrappongono: “Il capo di ogni uomo è Cristo, il capo della moglie è suo marito e il capo di Cristo è Dio”. Chiunque abbia familiarità con gli studi in materia sa che sulla sola parola “capo”, kephalē (in greco: κεφαλή, “capo”), sono stati scritti numerosi libri, gli studiosi utilizzando sia le loro competenze in greco sia i più recenti strumenti informatici, hanno prodotto molti articoli e libri discutendo se kephalē significasse “autorità su” o ” sorgente da cui” (proprio come la parte superiore di un fiume corrisponde alla sua sorgente), altri ancora hanno sostenuto che la parola significasse “prominente”, ” predominante” o ” principale”. In definitiva, il contesto suggerisce che nel versetto 3, kephalē, deve avere a che fare con l’autorità.

 

Roy Ciampa e Brian Rosner avevano ragione:

Anche se per “capo” Paolo intende “compagno più in evidenza/in vista” o con meno probabilità: “colui attraverso il quale esiste l’altro”, il suo linguaggio e il flusso dell’argomentazione sembrano riflettere una presunta gerarchia attraverso la quale la gloria e l’infamia passano da coloro che hanno una condizione di sottomissione a coloro che sono al di sopra di essi. In tale contesto la parola si riferisce quasi certamente a qualcuno che ha autorità su un altro[i].

 

Del resto abbiamo altri esempi negli scritti di Paolo in cui kephalē deve significare qualcosa come “autorità al di sopra di…”. Infatti in Efesini 1 Paolo afferma che “Cristo è stato fatto sedere alla destra di Dio nei luoghi celesti, al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione, tutto infatti ha sottomesso ai Suoi piedi, e lo ha costituito su tutte le cose a capo (kephalē) della Chiesa (Ef 1;20-22). Il contesto richiede che kephalē si riferisca all’autorità di Cristo sulla Chiesa e non solo al fatto che essa abbia origine in Cristo. Nello stesso modo, in Efesini 5, Paolo dice che le mogli devono essere sottomesse ai propri mariti perché il marito è il capo della moglie come Cristo è il capo della Chiesa (Ef 5,22-23); citare l’autorità del marito come motivo per la sottomissione della moglie ha poco senso se l’autorità implica solo la fonte o l’origine senza alcun riferimento alla guida degli uomini, perciò kephalē, almeno in questi due casi deve significare “autorità su”. E non vi sono ragioni grammaticali o contestuali per pensare che Paolo stia usando kephalē in modo diverso in 1 Corinzi 11.

 

Dunque, dovremmo comprendere 1 Corinzi 11:3 come espressione dell’”autorità di Cristo sugli uomini”; il marito ha autorità sulla moglie (le parole greche per uomo e donna sono le stesse per marito e moglie); Dio ha autorità su Cristo perciò abbiamo maschio e femmina uguali e interdipendenti (1 Cor. 11:11-12), che si relazionano l’uno con l’altro all’interno di un piano differente.

Anni addietro, alcuni membri delle comunità hanno enfatizzato troppo sull’importanza che Paolo collegasse il rapporto tra marito e moglie con la supremazia di Dio su Cristo. C’è un punto importante da sottolineare nel binomio Dio-Cristo al versetto 3: l’autorità del capo non implica un’inferiorità ontologica. Infatti avere autorità su qualcuno, essere perciò capo di un altro individuo, non è incompatibile con l’uguaglianza di valore, onore ed essenza. Tuttavia, pure in questo caso dobbiamo fare attenzione a notare che si fa riferimento ad un’espressione “economica” del Figlio nel versetto 3 (“Cristo”), e non ad una espressione dal significato prettamente metafisico (il “figlio”). Non dovremmo usare la Trinità “come modello” sulla quale basare la relazione matrimoniale, sia perché non è necessario che la complementarietà sia uguale, sia perché il funzionamento metafisico interno dell’ineffabile Trinità non consente facilmente un’applicazione alla vita di coppia. In sostanza, è sorprendente come il Nuovo Testamento colleghi spesso gli imperativi etici al Vangelo (come ad esempio il matrimonio, in quanto manifestazione di Cristo e della Chiesa), ma mai all’ordinamento eterno di Dio.

 

Se parliamo dell’economia della Trinità – ovvero dell’opera di Dio e delle tre Persone nella creazione e nella redenzione – possiamo certamente dire che il Figlio agisce per mezzo del Padre, mentre il Padre non agisce per mezzo del Figlio; c’è un ordine eterno (taxis) della Trinità che trova espressione nel tempo. Tuttavia il termine “eterna subordinazione” del Figlio non è il linguaggio migliore per descrivere questo ordine, né vediamo mai nella tradizione del Credo di Nicene che le persone della Trinità sono distinte da un rapporto di autorità e sottomissione; piuttosto, il modo in cui le persone della Deità sono state distinte – e tecnicamente sono distinte (il che suggerisce tre ipostasi) e non diverse (il che suggerirebbe un’altra ousia) – non è per ruoli o per relazioni eterne di autorità e sottomissione, ma per paternità e filiazione. In altre parole, il Padre è il Padre (e non il Figlio o lo Spirito), il Figlio è il Figlio (e non il Padre o lo Spirito) e lo Spirito è lo Spirito (e non il Padre o il Figlio) in virtù dell’agenesia del Padre in quanto Padre, della generazione del Figlio dal Padre e della processione dello Spirito dal Padre e dal Figlio.

 

Tutto ciò per sottolineare che dovremmo essere estremamente cauti nel fare affermazioni sommarie sulla Trinità basandoci su questo versetto, ma quello che possiamo dire partendo dal versetto 3 – ed è tutto quello che dobbiamo dire – è che il dominio non deve essere autoritario (in quanto Dio è il capo di Cristo) e che essere sotto il dominio di un altro non deve essere svilente (dato che Cristo è sotto il dominio di Dio). Come scrive Calvino: “Tuttavia, in quanto è divenuto Mediatore per portarci vicino a Dio, suo Padre, è posto al di sotto, e non per quanto riguarda il Suo essere divino, che è in Lui in tutta la sua pienezza e nel quale non differisce affatto da suo Padre, ma per quanto riguarda proprio il Suo rendersi nostro Fratello”[ii] .

 

D: Cosa si intende con il coprirsi e si dovrebbe ancora usare il copricapo o velo?

R: “Ogni donna che prega o profetizza in pubblico, senza tenere il capo coperto, disonora il proprio marito, perché il capo coperto è segno della sua sottomissione” (1 Cor 11:5).

Alcuni sostengono che il copricapo in 1 Corinzi 11:5 sia costituito dai capelli lunghi; dopo tutto, il versetto 15 non ci dice che “i suoi capelli le sono stati dati come copertura”? I capelli lunghi, tuttavia, quasi certamente non sono una copertura in senso stretto, il versetto 15 non deve necessariamente significare che i capelli lunghi sono dati al posto di una protezione, piuttosto può significare più semplicemente che i capelli sono dati come rivestimento.

L’argomentazione dal versetto 14 al versetto 15 suggerisce che i capelli lunghi non sono la copertura richiesta nel culto, ma sono indicativi del fatto che una sua copertura è richiesta (si veda anche il versetto 6 dove la testa scoperta non è identica, ma è disdicevole come la testa rasata). Le donne romane della tarda antichità dovevano essere caratterizzate soprattutto dalla pudicizia (in latino “modestia”), e per una donna matura portare i capelli scoperti era uno dei principali segni di immoralità sessuale.[iii]

 

La cultura ci fornisce i simboli della mascolinità e della femminilità, mentre la natura impone agli uomini di abbracciare la loro virilità e alle donne di abbracciare il loro essere donna.

 

Quindi qual era il suo copricapo? Secondo un’ipotesi attendibile si trattava di un particolare tipo di scialle. È più che probabile che non si trattasse di un velo, come si vede in molti paesi musulmani, perché le coperture per il viso non erano comuni nella cultura greco-romana e la copertura che Paolo ha in mente era forse un piccolo indumento avvolgente, simile a una sciarpa, che poteva essere posto sul capo quando si pregava e si profetizzava.

Le donne dovrebbero ancora coprirsi il capo quando pregano e profetizzano? Se questa è la vostra convinzione non vi direi mai di andare contro la vostra coscienza eppure, penso che Paolo ci permetta di utilizzare i nostri riferimenti culturali in materia di uomo e donna. É oggettivamente impossibile sapere con precisione come fossero i loro copricapi ed essendo in gran parte di noi ignoranti di tale pratica, qualsiasi tentativo di esatta osservanza sarebbe più simbolico che reale.

D: Qual è il “capo” che disonora la donna?

R: “Ogni donna che prega o profetizza in pubblico, senza tenere il capo coperto, disonora il proprio marito, perché il capo coperto è segno della sua sottomissione” (1 Cor 11:5).

Una delle difficoltà di questa sezione è che la parola “testa” è usata in tutto il brano con significati diversi, e delle volte multipli; così “ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto disonora il suo capo” (1 Cor 11,4) significa che ogni uomo che si copre il capo fisico disonora il suo capo spirituale cioè Cristo (1 Cor 11,3). E la donna? Anche lei disonora il suo capo spirituale quando il suo capo fisico è scoperto. Per estensione il capo che disonora è Cristo, ma soprattutto il marito. Le azioni della moglie si riflettono sul marito, perché lei è la sua gloria (1 Cor 11, 7; cfr. Prov 31, 23).

Il problema a Corinto probabilmente coinvolgeva sia uomini sia donne; possiamo comprendere come una moglie lasciva e scoperta potesse portare vergogna al marito, tuttavia la colpa potrebbe anche essere degli uomini. All’inizio della supremazia dell’Impero Romano, gli uomini erano soliti utilizzare l’abbigliamento e l’aspetto delle loro mogli nel tentativo di ottenere uno stato di prestigio per loro stessi; come è improbabile che i mariti volessero che le loro mogli partecipassero al culto senza veli, è verosimile che gli uomini cercassero gloria dalle loro mogli, tanto quanto alcune donne rischiavano di far vergognare i loro mariti.

 

D: Cosa intende Paolo con “autorità”?

R: “Perciò la donna deve, a causa degli angeli, avere sul capo un segno di autorità” (1 Cor 11:10).

La maggior parte delle traduzioni italiane parlano di “segno” o “simbolo” di autorità; tuttavia anche se nel greco di 1 Corinzi 11:10 non si trova la parola “segno” o “simbolo” la maggior parte degli autori concorda sul fatto che Paolo non stia indicando che la donna debba avere potere sulla propria testa. Questa conclusione non deriva facilmente dal resto dell’argomentazione di Paolo, eppure abbiamo ragione di pensare che il copricapo sia il segno o il simbolo dell’autorità stessa.

Ma che tipo di autorità? Gli studiosi sono concordi nell’intendere il versetto 10 come un segno dell’autorità del marito sulla moglie; tuttavia più recentemente, molti sostengono che il copricapo sia un segno della posizione della moglie in merito all’autorità di pregare o profetizzare. Non credo che le due interpretazioni siano poi così diverse, in entrambi i punti di vista la moglie deve avere sul capo un segno che attesti che non ha annullato l’autorità del marito per poter pregare o profetizzare; in altre parole: il copricapo funge da segno di sottomissione al marito e come simbolo della facoltà e autorità di pregare e/o profetizzare nell’assemblea.

 

Sebbene in questo brano Paolo si appelli all’”ordine creato”, egli non si sofferma a basare espressamente il copricapo sul disegno originale di Dio. Secondo 1 Corinzi 11:10, in base all’ordine stabilito dei sessi, la donna dovrebbe avere un segno di autorità sul capo. Tuttavia si noti che Paolo non fornisce dettagli specifici sul tipo di copricapo che la donna dovrebbe indossare ed è chiaro che ne ha in mente uno per le donne di Corinto, ma ciò che la creazione sostiene non è un particolare tipo di scialle bensì un simbolo di autorità; questa è la chiave.

Quando le donne pregano e profetizzano nell’assemblea devono farlo con qualche segno che indichi la loro autorità; in altre parole qualcosa deve dire alla comunità: “Questa donna che parla in pubblico non sta abbandonando il proprio ruolo quale gloria dell’uomo, ma rimane sempre sottomessa al marito (se ne ha uno), perciò ha l’autorità di parlare”.

Forse questo simbolo è l’anello nuziale o il modo di vestire, il fatto di prendere (in alcune culture) il cognome del marito o un comportamento ben noto di dolcezza e rispetto.

 

[i] Roy E. Ciampa e Brian S. Rosner, The First Letter to the Corinthians (Grand Rapids, MI: Eerdmans, 2010), 509. Per un approfondimento sul kephale si veda Wayne Grudem, Evangelical Feminism and Biblical Truth: An Analysis of More than 100 Disputed Questions (Wheaton, IL: Crossway, 2012), 201-11, 544-99.

[ii]  Giovanni Calvino, Uomini, donne e ordine nella Chiesa: Tre sermoni di Giovanni Calvino, trad. it.

Seth Skolnitsky (Dallas: Presbyterian Heritage, 1992), 16.

[iii] Si veda Kyle Harper, From Shame to Sin: The Christian Transformation of Sexual Morality in Late Antiquity (Cambridge, MA: Harvard University Press, 2013), 41-42.

 

 

Tradotto da Yuni Akermi

 

Tematiche: Domande e Risposte, Vangelo, Vita Cristiana

Kevin DeYoung

Kevin DeYoung

 

Kevin è pastore della Christ Covenant Church a Matthews, Carolina del Nord (Stati Uniti). È professore di teologia sistematica al Reformed Theological Seminary ed è il presidente del Comitato di The Gospel Coalition. Lui e sua moglie Trisha hanno sei bambini.

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