The Joshua Tree degli U2 compie 30 anni.

 

 

Nel mondo della musica pop, è difficile sopravvalutare l’importanza l’album The Joshua Tree degli U2. Le sonorità cinematografiche dell’album e i temi del desiderio, della perdita e della speranza sono tanto attuali oggi quanto 30 anni fa, quando l’ album uscì per la prima volta.

Ho scoperto questo album successivamente alla sua uscita, a metà degli anni’ 90, durante le mie esperienze musicali formative. Stavo ascoltando i suoni di Jeff Buckley, Radiohead, Smashing Pumpkins e Pearl Jam, e trovando il mio stile con la chitarra elettrica. Sono entrato a far parte di una band in cui ero il membro più giovane. Era un gruppo di guerrieri di 30enni e 40enni che suonava cover di Journey, Queen e Van Halen. Era tutt’ altro che glamour per un sedicenne, ma mi piaceva fare musica e ho pensato che potesse essere una buona esperienza di apprendimento. (lo fu, ma questa è un’altra storia.)

Un giorno, il frontman della nostra band ci ha suggerito di aggiungere “I Still Haven’t Found What I’m Looking For” (“Non ho ancora trovato quello che sto cercando”) al repertorio e ho confessato che non conoscevo quella canzone. La mia confessione è stata accolta con sussulti, come ammettere un colpo di scena fatale. Scott annuì dicendo “Sto per cambiare la tua vita”.

 

Musicalmente parlando, aveva ragione

Certo avevo già sentito gli U2, ma non li avevo mai ascoltati attentamente. The Joshua Tree (“L’albero di Joshua”) mi ha attirato come una falena alla fiamma; sono caduto nel buco del coniglio degli U2, assorbendo tutti i loro dischi e da allora sono stato un fan sfegatato.

Anche mentre assorbivo War and POP e Achtung Baby, continuavo a tornare a The Joshua Tree. Prima di quel disco, The Edge aveva sempre avuto un suo suono proprio, ma qui si è aperto. Quella che in precedenza era stata un gran rock sarebbe diventata per sempre la leggenda: un suono come uno strumento che riecheggiava da scogliere ghiacciate, un suono che avrebbe dato vita a mille altri imitatori. Me ne ero innamorato.

Ma The Joshua Tree trascende anche l’evoluzione di The Edge. Era pionieristico per il suo tempo non solo per il suo suono, e non solo per le sue canzoni, ma anche per la sua etica profetica. L’album rimane una singolare affermazione che risuona con passione e chiarezza, anche 30 anni dopo.

 

Voce profetica

La musica rock ha sempre avuto un carattere profetico. Le sue radici affondano nella musica popolare e nel blues che hanno origine tra le persone oppresse. Questo è vero soprattutto per il blues che è sorto dalle canzoni evangeliche afroamericane alla fine del XIX secolo. È il suono di persone le cui celebrazioni sono un modo per ridere di un oppressore e le cui lamentele sgorgano da vite frustrate. Lo sentiamo in Blind Lemon Jefferson e Leadbelly, in B. B. King e John Lee Hooker. Nella musica popolare, la ascoltiamo in Woody Guthrie, Bob Dylan e Leonard Cohen. Sono le voci di persone che guardano al mondo, ne vedono la rottura, la tristezza, l’ingiustizia e cantano i loro canti a dispetto e contro di esso.

Ai nostri giorni, ci sono una manciata di voci il cui lavoro rimane profetico. Penso a come OK Computer di Radiohead abbia testimoniato l’assalto di un mondo tecnocratico e anticipato i suoi effetti disumanizzanti. Penso a The Black Album di Jay-Z, che ha dato voce all’esperienza dei giovani afroamericani. La canzone “99 Problems” non è solo uno scherzo divertente, che è quanto spesso viene interpretata; è un commento su come gli uomini neri sono percepiti nel nostro mondo.

Penso anche a The Joshua Tree, un album uscito nello stesso anno dell’Appetite for Destruction dei Guns N’ Roses. Questo fu il culmine della decadenza degli anni’ 80, il culmine della guerra fredda, un periodo di prosperità economica, disuguaglianza sociale e paura nucleare. Alcuni, come Guns N’ Roses e Def Leppard, sembravano pronti a portare con sé l’apocalisse fintanto che avevano un drink in mano e una donna nel letto.

 

Ma poi venne The Joshua Tree

Bono cantava una città in cui le strade non avevano alcun nome; si lamentava di non aver ancora trovato quello che cercava. In “Bullet the Blue Sky” dà una visione del denaro contante che viene pagato per una macchina da guerra, ispirata dalla violenza della guerra civile in El Salvador. Si lamenta su In God’s Country (“Nel Paese di Dio”) che “ogni giorno i sognatori muoiono” e si vede in piedi tra i figli di Caino: maledetto ed esiliato.

Nel 1985 e nel 1986, Bono e U2 viaggiarono per il mondo, presero parte alle proteste contro la guerra e contro l’Apartheid, e sperimentarono la morte del loro amico e assistente di Bono, Greg Carroll. Bono ha detto che, durante questo periodo, il suo matrimonio è stato in pericolo.

La produzione dell’album è stata lunga e sminuita. C’erano lotte, registrazioni su registrazioni e cambiamenti del personale dell’ultimo minuto tra il team di produzione. L’album stesso prende il suo titolo da The Joshua Tree National Park, un paesaggio aspro nel sud della California. È pieno di canzoni scritte in e da un deserto spirituale.

 

Le radici cristiane degli U2

Molto è stato scritto sulle radici religiose della musica degli U2. Il The New Yorker, The Huffington Post, e il Sojourners descrivono queste radici, e Bono si è seduto di recente con Eugene Peterson per parlare della sua fede e dell’importanza dei Salmi nella sua vita. In un’intervista, ottiene una vera e propria apologetica:

“Gesù diceva di essere il Messia. Ecco perché è stato crocifisso. è stato crocifisso perché diceva di essere il Figlio di Dio. Così, egli, a mio parere, era il Figlio di Dio o era pazzo. Dimenticate i complessi messianici rock-and-roll: significa delirio di tipo Charlie Manson. E trovo difficile accettare che milioni e milioni di vite – la metà della Terra, per 2.000 anni – siano state toccate, hanno sentito la loro vita toccata e ispirata da qualche pazzo. Non ci credo”.

E mentre a volte sembra che Bono voglia tenere la chiesa a distanza, la sua fede sanguina attraverso la sua musica, specialmente in Joshua’s Tree. Essa predica contro l’ingiustizia, si lamenta della perdita e grida con la speranza che possano essere qualcosa di significativo rimasto nel mondo.

Questo desiderio è un desiderio di culto significativo. Siamo tutti noi, secondo le parole di Harold Best, “adoratori incessanti” che versano continuamente la nostra vita per qualcosa. Stiamo “morendo per donarci qualcosa”, come ha detto David Foster Wallace. In The Joshua Tree, la band cercò una maggiore chiamata e nel lavoro che hanno fatto negli anni che l’hanno preceduto, nei viaggi per le parti più povere del Sud America, nei concerti di protesta in Irlanda, nei progetti che si sono pronunciati contro l’Apartheid, hanno trovato una loro chiamata. Se c’è una cosa che hanno sempre fatto da allora, è che hanno cercato di salvare il mondo.

Si potrebbe accusare U2 di idealismo, ma lo slancio dell’ Albero di Giosuè è esattamente il contrario. Si inizia con Where the Streets Have No Name (“Dove le strade non hanno alcun nome”) – di gran lunga il più gioioso dei brani dell’ album e si conclude con Mothers of the Disappeared (“Madri dei dispersi”), una riflessione cruda su rapimenti e uccisioni in El Salvador. Sentiamo il loro battito cardiaco” canta Bono degli scomparsi, aggrappati a qualche speranza. Ma la storia è chiara. Per quanto Where the Streets Have No Name brilla una luce, l’album nel suo complesso è sul buio, parla del deserto.

Forse è per questo che ha scalato le classifiche quando lo hanno lanciato. Era una verifica della realtà spirituale che richiamava il vuoto di una cultura consumistica e trionfalistica. Come tutta la grande arte, ha detto la verità sul mondo in un momento in cui altri dicevano qualcosa di molto falso.

Forse è anche per questo che l’album continua a risuonare ancora oggi. La band degli U2 è attualmente in tour per festeggiare il 30° anniversario del disco e la gente agli stadi si uniranno a Bono cantando in un luogo dove le strade non hanno alcun nome e confessando che sono ancora alla ricerca di qualcosa di appagante. “Credo nel regno “, cantano. Era e rimane l’unica vera speranza nel deserto.

 

 

Traduzione a cura di Lisa Artioli

 

 

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Mike Cosper

Mike Cosper è direttore di The Harbor Institute for Faith and Culture in Louisville, Kentucky. Autore di Recapturing the Wonder: Transcendent Faith in a Disenchanted World​ (IVP Books, 2017), The Stories We Tell: How TV and Movies Long for and Echo the Truth (Crossway, 2014), Rhythms of Grace: How the Church’s Worship Tells the Story of the Gospel (Crossway, 2013). Lo puoi seguire su Twitter.

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