Adorare Dio un boccone alla volta

 

 

Tra gli argomenti più attuali e “sulla bocca di tutti” un posto rilevante è certamente occupato dal cibo.
Se ne parla così tanto non solo perché il bisogno di alimentarsi è fondamentale e primario per l’esistenza dell’essere umano, ma anche perché lo si concepisce come uno dei mezzi per salvare dal male gli esseri umani ed il mondo in cui viviamo.
È naturale desiderare di vivere in armonia con la natura e con la creazione. Infatti da quando Adamo ed Eva furono creati e collocati nello splendore del giardino dell’Eden, ci portiamo dietro questa memoria di perfezione ed equilibrio. Essendo creati ad immagine e somiglianza di Dio la nostra matrice è innegabile e tuttavia essendo decaduti, corrotti, rovinati dal peccato siamo incapaci di tornare alla situazione di equilibrio iniziale.
Abbiamo bisogno, insieme a tutta la creazione, di essere soccorsi, salvati e ristabiliti (Romani 8:22-23a) così tentiamo di recuperare con mezzi e strategie nostri.

 

Il cibo come mezzo umano per redimerci

Spesso si affronta l’ansietà per la malattia e la morte individuando le sostanze criminali contenute negli alimenti. Queste però cambiano negli anni, così come quelle ritenute benefiche.
Oggi si individuano come cibi killer la carne, il glutine, l’olio di palma, il glutammato monosodico promuovendo invece i cibi elisir come la curcuma, lo zenzero, il cocco, i semi ecc. che si suppone allunghino la nostra aspettativa di vita migliorando la qualità della salute.
Chissà cosa mangiava Giobbe che sapeva che i giorni della sua esistenza erano stabiliti da Dio e che anche se avesse sospeso l’introduzione di carne e fosse diventato un vegano radicale non avrebbe protratto la sua vita neanche di un’ora (“Chi può trarre una cosa pura da una impura? Nessuno. Poiché i suoi giorni sono fissati, il numero dei suoi mesi dipende da te, e tu gli hai posto dei limiti che non può oltrepassare”. Giobbe 14:4-5).

Davide ne era altrettanto consapevole quando meditava e scriveva sull’onniscienza e sovranità di Dio (“I tuoi occhi videro la massa informe del mio corpo, e nel tuo libro erano già scritti tutti i giorni che erano stati fissati per me, anche se nessuno di essi esisteva ancora”. Salmo 139:16).

Un altro modo per cercare di auto-salvarci è dare valore morale al cibo e sostenere che la nostra coscienza insieme al comportamento possono essere influenzate dai cibi assunti. Il motto “Siamo quello che mangiamo” comprende anche questa lettura: gli alimenti condizionano i nostri atteggiamenti fino a renderci più o meno inclini ad atti positivi o negativi. L’assunzione di carne ad esempio è ritenuta responsabile di azioni aggressive, mentre quella di riso è ritenuta modulatrice dell’umore.

Gesù a questo proposito parlando con persone attentissime ad ogni tipo di contaminazione relativa all’alimentazione, ci ricorda in Matteo 15:11 (“Non ciò che entra nella bocca contamina l’uomo; ma è quel che esce dalla bocca che contamina l’uomo”) e ai vv 17-18 (“Non capite che tutto ciò che entra nella bocca se ne va nel ventre, e viene espulso nella fogna? Ma le cose che escono dalla bocca procedono dal cuore; sono esse che contaminano l’uomo”) che è il peccato intessuto nelle fibre del nostro essere che produce il comportamento, non di certo la tipologia di cibo che passa per l’esofago ed è espulso dopo essere assorbito.

 

Non ciò che entra nella bocca contamina l’uomo;
ma è quel che esce dalla bocca che contamina l’uomo.

 

Eppure oggi si stima che in Italia i Vegani e Vegetariani siano il 7,1% dell’intera popolazione e a quanto pare il fenomeno è in crescita costante.
Questo stile alimentare, motivato da fattori differenti, presenta i tratti di una religiosità alimentare, una sorta di ortoressia: una selezione quasi maniacale dei cibi. Ciò di cui ci si nutre viene analizzato anche moralmente e si diventa ossessivi o fobici nei confronti di certi ingredienti entrando in un circolo vizioso in cui il controllo della provenienza degli alimenti, la loro tracciabilità, i metodi di produzione prendono il sopravvento e condizionano fortemente il rapporto col cibo.
Ci si sente in colpa per la porzione di patatine fritte mangiate alla sagra del paese perché stavamo svenendo dalla fame e siccome non c’era niente di più sano e ortodosso per placare i boati dello stomaco, abbiamo ceduto per poi rimediare il giorno dopo con un piatto di minestrone per riallineare la coscienza!

 

Leggendo le lettere di Paolo appare evidente che anche ai suoi tempi il cibo fosse un mezzo tramite il quale si poteva cadere preda di certi inganni e scrivendo a Timoteo lo mette in guardia nei confronti delle proibizioni alimentari dettate da chi negava la fede nella verità che tutto ciò che Dio ha creato come nutrimento è buono e nulla è da rifiutare.

Leggiamo in 1 Timoteo 4:1-5: “Or lo Spirito dice espressamente che negli ultimi tempi alcuni apostateranno dalla fede, dando ascolto a spiriti seduttori e a dottrine di demoni, 2 per l’ipocrisia di uomini bugiardi, marchiati nella propria coscienza, 3 i quali vieteranno di maritarsi e imporranno di astenersi da cibi che Dio ha creato, affinché siano presi con rendimento di grazie da coloro che credono e che hanno conosciuto la verità. 4 Infatti tutto ciò che Dio ha creato è buono e nulla è da rigettare, quando è usato con rendimento di grazie, 5 perché è santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera”, ma vedi anche Atti 10.

 

Ma cosa dice la Bibbia relativamente al cibo? C’è una teologia del cibo?

Dio creò l’uomo bisognoso di mangiare e ne provvide il nutrimento. Dio stesso è quindi donatore e dispensatore di cibo in quantità e varietà (Genesi 1:29) e noi siamo gli esseri che ricevono i beni. In quanto tali siamo dipendenti da ciò che Dio ci dona tramite la creazione, che nonostante sia decaduta, produce incessantemente nutrienti a noi indispensabili.

Di questo desideriamo essere riconoscenti e grati a Dio, ma vogliamo anche andare più in profondità.
Quando gustiamo una brioche appena sfornata, godiamo di un piacere fisico che ci viene trasmesso tramite i sensi. La guardiamo, l’annusiamo, l’addentiamo e l’assaporiamo tramite le papille gustative ed entro pochi secondi percepiamo una sensazione di fragranza, sofficità, delicatezza e di tenera tiepidezza che vorremmo si ripetesse ogni mattina.

Dio creatore avrebbe anche potuto fare il cibo insapore o non dotarci di papille gustative, ma l’ha fatto per farci gustare e assaporare un piacere.
Il senso del gusto è stato mantenuto nonostante l’avvento del peccato ed afferma ancora oggi come nei giorni della creazione: “Molto Buono”!

Quindi nutrirci con cibi buoni, saporiti e appetitosi fa parte del pensiero amorevole e generoso di Dio nei confronti di ogni essere umano. Come suoi figli inoltre sappiamo anche di essere corpi ospitanti lo Spirito Santo, templi viventi che desiderano essere vasi di terra che fanno risaltare l’opera di Dio in noi anche quando mangiamo.

Il piacere che proviamo assaporando il nostro alimento preferito, le sensazioni appaganti che vorremmo non terminassero mai, non finiscono o si concludono nel cibo in sé, ma ci rimandano dalla cosa creata al Creatore.
Ciò che gustiamo è un’eco delle qualità ed attributi invisibili di Dio, è un’emanazione della sua pienezza e completezza.
La bontà catturata nel mio palato mi porta alla bontà di Chi ha inventato quella bontà che è ben più abile e sapiente del migliore chef stellato.

Quando sono consapevole che mangiando non sto soddisfacendo solo un bisogno primario, non sto solo introducendo del carburante, né sto gustando un piacere per riempire un vuoto e quindi facendo del cibo il mio idolo, allora sto assaporando ed “assaggiando” Dio (Salmo 34:8) cioè la sua divina potenza, la sua perfezione e la sua dolcezza.

Il cibo è una metafora vivente e concreta dei suoi attributi invisibili che ci permette di essere riconoscenti, cioè di ringraziarlo per la sua bontà verso di noi, ma anche e soprattutto di adorarlo perché anche in un piatto possiamo ammirare da lontano lo sfolgorio e la squisitezza delle sue qualità.
Ogni pasto vissuto così è un momento di adorazione che ci dirige verso l’apprezzamento di Dio e non solo del cibo stesso che Lui ci provvede.

 

Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate alcun’altra cosa, fate tutte le cose alla gloria di Dio (1 Corinzi 10:31).

Nel corso della vita potremo avere la scelta di mangiare qualcosa che gradiamo oppure potrà accadere di poter mangiare solo una piccola porzione di pasta in bianco.
Ricordiamoci che non è tanto importante ciò che mangiamo, ma come lo mangiamo, con quale atteggiamento e disposizione d’animo: cioè con gratitudine, lode e adorazione a Dio perché è Dio che estende a noi la sua pienezza nel donarci il cibo, ci comunica la sua grandezza e la sua gloria e noi rispondiamo a Lui riconoscendo che Lui è il dispensatore di tutto ciò che ci necessita e che il cibo che ci dona è sì un piacere ma soprattutto è il riflesso della sua gloria.

 

Nessun cuore non rigenerato può vedere la gloria di Dio riflessa da un cibo. In genere si vede la gloria dell’aragosta, del salmone o del cioccolato e del maestro pasticcere che l’ha lavorato. Ma il cuore nato di nuovo contempla come in uno specchio la gloria del Signore che rifulge nel volto di Cristo (2 Corinzi 3:18) e da questa posizione non trattiene il fascio di luce gloriosa sulle cose create o su se stesso, ma gustando il piacere procurato dal cibo, rifrange e restituisce sospiri, apprezzamenti, parole, canti e azioni di lode che acclamano l’eccellenza di Dio e affermano senza sosta la sua gloria. Sì, incessantemente di pasto in pasto finché arriverà l’ora della cena delle nozze dell’Agnello a cui siamo felicemente invitati ad accomodarci per mangiare e brindare vestiti di lino finissimo, puro e risplendente (Apocalisse 19:7-9) adorando l’onnipotente Re dei re.

 

 

 

 

Tematiche: Comunione, Crescita spirituale, Teologia, Vita Cristiana

Emanuela Quattrini Artioli

Emanuela Quattrini Artioli

 

Lavora con il ministero di Coram Deo e serve nella Chiesa “Sola Grazia” di Porto Mantovano, Mantova (www.chiesasolagrazia.it) come insegnante per le donne. Sposata con Andrea e madre di tre figli.

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