Come “l’appartenenza prima di credere” ridefinisce la chiesa

 

Una delle più grandiose scoperte del mondo moderno è che John Donne aveva ragione e “Simon & Garfunkel” si sbagliavano: io non sono una roccia; io non sono un’isola.

 

Da chi credo di essere a ciò che penso della vita e dell’universo, le mie opinioni sono costruite socialmente; questo non significa che non sono in grado di prendere decisioni indipendenti, ma vuole semplicemente dire che il contesto sociale in cui vivo definisce fortemente la gamma di opzioni tra le quali posso scegliere.

 

Inoltre, la cultura privilegia alcune scelte e ne penalizza altre con la sua approvazione o disapprovazione. Talvolta può prevalere il vantaggio economico, ma, cosa molto più potente del profitto economico, è il giovamento sociale, intellettuale ed emozionale derivante dell’essere considerato normale, sano, un membro ben integrato della società. Noi siamo essere sociali, e per questo vogliamo essere inclusi nel gruppo.

 

Questo significa che, indipendentemente dal valore effettivo di un’idea, alcune idee sembrano più plausibili o invitanti di altre. È difficile credere qualcosa che sappiamo essere ritenuto assurdo da chiunque. D’altro canto, è piuttosto semplice credere qualcosa che tutti quanti reputano logicamente esatto. Non siamo isole in un fiume, siamo un branco di pesci, e ci sembra semplicemente sensato seguire la corrente.

 

La chiesa dice: “questo non è così folle come pensavi che fosse!”

Cosa accade quando aderisci al modo di pensare della chiesa locale e al suo scopo evangelistico?

All’improvviso, realizzi che la chiesa è qualcosa di più che un semplice luogo di predicazione o una sede di programmazione evangelistica e comprendi che l’obiettivo dell’evangelizzazione non è più ristretto ai soli esperti dello staff.

Al contrario, la comunità intera è fondamentale allo scopo di diffondere il Vangelo. Questa comunità è un’alternativa plausibile all’incredulità dell’uomo: una sottocultura che dimostra cosa vuol dire amare e seguire Gesù, e di conseguenza amare e servire gli altri. Questo accade proprio quando il corpo della chiesa vive la propria vita in comunione: dalle riunioni pubbliche ai piccoli gruppi di studi biblici, dagli incontri informali intorno una tavola per la cena, agli eventi più prettamente sociali; la vita insieme non soltanto rinforza la fede condivisa, ma comunica anche al mondo non cristiano che osserva: “Questo non è folle come pensavi che fosse, e se fai il salto dall’incredulità alla fede non sarai solo”.

 

In altre parole la chiesa diventa una struttura affidabile di fede. Ha senso?

 

Un ulteriore passo in avanti: appartenere prima di credere.

Negli ultimi decenni, tuttavia, molte chiese hanno portato questa visione un passo in avanti. Se vedere un’alternativa convincente dall’esterno può spingere qualcuno a spostarsi dalla sua posizione di incredulità alla fede, non sarebbe ancora meglio vedendola direttamente dall’interno? Se vogliamo portare il Vangelo ai non credenti, cosa c’è di più efficace di invitarli all’interno, lasciando che lo provino prima di “acquistarlo”? Se la comunità è lo strumento più potente che abbiamo allora lasciamo che le persone entrino, non come osservatori esterni, ma (prudentemente) come parte integrante della nostra vita collettiva.

 

Il risultato? I “non credenti” diventano “ricercatori” invece di rimanere non-cristiani. Diventano nostri compagni di viaggio, solo che si trovano a un punto differente rispetto a noi.

 

A livello pratico questo significa lasciare che i non-credenti partecipino a ogni attività, dal gruppo di adorazione al ministero che si occupa del doposcuola, dal servizio d’ordine fino al coordinamento delle passeggiate per gli anziani. Tutti sono inclusi e sono parte integrante, indipendentemente dalla fede personale.

 

L’idea è che, prima ancora di accorgersene, non solo sentiranno di appartenere alla comunità, ma giungeranno a credere in ciò a cui appartengono perché l’appartenenza ha reso la fede possibile.

 

Perché non lasciare che appartengano prima di credere?

Questa è un’idea allettante ed efficace, ma è anche una cattiva idea. Eccone tre ragioni:

a) Confonde i credenti.

Prima di tutto confonde i cristiani. Io sono Pastore di una chiesa che per anni ha praticato questa usanza in modo informale. Il risultato è stato una collezione di persone (alcuni membri formali, altri no) che affermano di essere “cristiane”. Il problema è che alcune sono zelanti e crescono nel Vangelo, altre sembrano più interessate a essere intrattenute, mentre altre ancora sono addirittura infastidite dal dover contribuire, ma dal momento che ognuno di loro appartiene alla famiglia sono nominalmente seguaci di Gesù. Così avviene che noi dobbiamo escogitare altre definizioni per differenziarli: “È molto impegnato”, “non le piace molto la musica”, “I suoi amici non sono più qui”; dobbiamo anche creare categorie extra come “cristiani fedeli”, “cristiani veri”, e “cristiani che si sacrificano”, in modo tale da poterli distinguere dai “cristiani comuni” e da “sottospecie di cristiani”.

 

Sicuramente dovremmo aspettarci una certa maturità spirituale nella chiesa, ma i cristiani possono peccare. Cosa significa davvero essere cristiani in questo contesto? Cosa dovremo fare con gli “scomodi insegnamenti” dati da Gesù come “Chiunque fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, mi è fratello, sorella e madre” (Mat. 12:50), o anche “Chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me ” (Mat. 10:38)? Gesù descriveva l’essere suoi seguaci come un rompere radicalmente con il nostro vecchio modo di vivere, ma quando cominciamo a distorcere deliberatamente la linea che ci pone dei limiti, confondiamo i cristiani riguardo a cosa significhi originariamente essere seguace di Gesù.

 

b) Confonde i non-cristiani.

In secondo luogo, “appartenere prima di credere” confonde in non cristiani. Non molto tempo dopo essere arrivato nella mia chiesa, ricevemmo una chiamata anonima al nostro ufficio e fummo informati che uno dei leader stava “vivendo nel peccato”, per usare una frase antiquata. Quando siamo andati in fondo alla questione, abbiamo scoperto che era la verità.

In un certo senso, quello non era il problema più grande. Di nuovo, i cristiani possono cadere nel peccato, anche nei peccati più gravi.

Il vero problema, da un punto di vista pastorale, sorse quando ci confrontammo con questa persona. La risposta fu sconcertante: “Io non volevo questo! Se avessi saputo che sarebbe andata in questo modo, non avrei mai accettato di far parte di tutto questo”. (Ironicamente, puoi adottare la cultura dell’appartenere prima di credere e avere comunque membri qualificati formalmente, come facevamo anche noi).

 

Evidentemente, per quest’individuo, essere cristiano non significava obbedire a Gesù e il Vangelo non significava ravvedersi e credere; al contrario, per lui voleva dire appartenere alla nostra famiglia, essere accettato e avere l’opportunità di mostrare i propri talenti e i propri interessi. La responsabilità sicuramente non rientrava nell’equazione, e nemmeno l’affidabilità. Prim’ancora che avessimo la possibilità di discuterne, quel leader è andato via.

 

Quando ai non Cristiani non viene mai detto che non sono cristiani, e invece gli viene insegnato a guardare loro stessi come “compagni di viaggio”, “ricercatori”, o “persone che si trovano in un punto differente dello stesso percorso”, diventa facile per loro essere confusi su cosa significhi davvero essere cristiano e cosa voglia dire avere fede nel Vangelo. Il desiderio di appartenere a una famiglia di persone meravigliose può facilmente portare qualcuno ad aderire alla comunità di Gesù, senza però aderire al comandamento di Gesù che dice di pentirsi e credere.

 

c) Ridefinisce dalle fondamenta la chiesa locale.

 Infine, “appartenere prima di credere” ridefinisce le fondamenta della chiesa locale. La chiesa locale è una comunità e, alla fine dei conti, una comunità non è definita dai suoi documenti, dall’edificio o dal programma, ma dalle persone che la compongono – persone le cui vite partecipano alla nuova creazione di realtà di amore e santità, sviluppando così nuove strutture plausibili.

 

Questo è ciò che pensava Gesù: “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Giov. 13:35).

 

Questo è ciò che pensava Paolo: “Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete via dunque il vecchio lievito, affinché siate una nuova pasta, come ben siete senza lievito; la nostra pasqua infatti, cioè Cristo, è stata immolata per noi” (1 Cor. 5:6-7). Ancora: “Non vi mettete con gli infedeli sotto un giogo diverso, perché quale relazione c’è tra la giustizia e l’iniquità? E quale comunione c’è tra la luce e le tenebre?” (2 Cor. 6:14).

 

Questo è ciò che pensava Pietro: “Comportatevi bene fra i gentili affinché, là dove vi accusano di essere dei malfattori, a motivo delle buone opere che osservano in voi, possano glorificare Dio nel giorno della visitazione” (1 Pt. 2:12).

 

Questo è ciò che pensava Giovanni: “Da questo conosciamo che siamo in lui. Chi dice di dimorare in lui, deve camminare anch’egli come camminò lui” (1 Gv. 2:5-6).

 

Tutto questo è il potere della testimonianza della chiesa riguardo Cristo, secondo il Nuovo Testamento. Quando il mondo guarda la chiesa, è ovvio che veda peccatori, ma non è tutto qui: vede peccatori le cui vite sono state radicalmente trasformate dal messaggio del Vangelo; vede peccatori il cui amore gli uni per gli altri non può essere spiegato da nulla, se non dalla morte e dalla resurrezione di Gesù Cristo; vede peccatori che, non solo si amano gli uni gli altri, ma che amano Dio attraverso Gesù, e le cui vite manifestano quest’amore in santità e verità.

 

Per ritornare dove abbiamo cominciato, la chiesa può essere una struttura adatta alla fede solo se costituita da persone che hanno fede.

 

Tutto cambia quando la chiesa diventa la comunità di coloro che fanno semplicemente un percorso insieme: per molti, l’esito di questo viaggio è poco chiaro e incerto, per altri, questo viaggio, rappresenta un fermarsi prima di raggiungere la destinazione finale; per altri ancora, il traguardo della salvezza è raggiunto, ma la comunità in se stessa, non è testimone della verità di Gesù Cristo e del suo Vangelo. Non può esserlo se c’è la possibilità di appartenere prima di credere.

 

Al contrario, la comunità è prettamente testimone di se stessa, del suo calore, della sua apertura, del suo coinvolgimento, ma, alla fine, cos’è che la rende così unica e irresistibile? Ci sono molte comunità accoglienti e aperte, “sottoculture” se vogliamo così definirle, nella città di Portland dove io vivo, ma non testimoniano di Gesù. Solo la chiesa locale può farlo, ma in ogni caso, la chiesa può farlo solo se i suoi componenti credono prima di appartenere.

 

In poche parole, la filosofia dell’appartenere prima di avere fede ridefinisce le fondamenta della chiesa, e a lungo andare minerà il potere della testimonianza della chiesa.

 

Ecco un’idea migliore

“Appartenere prima di credere” non è una buona idea. Un’idea migliore può essere quella che descrive Gesù in Giovanni 13: una comunità che crede profondamente nel Vangelo, al punto da condurre una vita caratterizzata dall’amore gli uni per gli altri. Una comunità come questa, secondo Gesù, porterà coloro che sono al di fuori non soltanto a rendersi conto che sono fuori da tutto ciò, ma a fargli desiderare di entrare a farne parte.

 

L’immagine che viene alla mente è quella di un panificio in un giorno freddo e nevoso: sbuffi di profumo di pane delizioso e di cioccolata calda che vengono fuori di tanto in tanto, e un bambino con il naso schiacciato contro la vetrina. Quel vetro è una barriera. Senza di essa il calore e l’odore invitante si dissolverebbero nel vento freddo, e nessuno saprebbe che lì si può trovare qualcosa di buono. È una barriera trasparente, che permette al bambino di vedere le cose buone che ci sono all’interno, per poi poterlo invitare dentro; c’è un modo per entrare, una porta stretta che deve attraversare e fnché non entra e non ha la possibilità di apprezzare quello che c’è dentro, senza pero poterlo assaggiare. Una volta entrato, può avere ciò che è lì, solo se chiede.

 

Quando dei non cristiani incontrano la tua chiesa, dovrebbe essere come ritrovarsi davanti a quella vetrina, e non come fissare un muro di mattoni. Dovrebbero sentire il calore del vostro amore, nel momento in cui dai loro il benvenuto e le accogli come persone create a immagine di Dio. Dovrebbero sentire la profondità delle relazioni, quando vedono persone, che non hanno alcuna ragione per amarsi a vicenda, fare di tutto per servire. Dovrebbero gustare la ricchezza del Vangelo, quando viene predicata la Parola di Dio in modo strettamente collegato con le loro vite. Dovrebbero sentire l’invitante suono di una comunità gioiosa, quando ascoltano la lode e la preghiera di persone che adorano il nostro Signore crocifisso e resuscitato.

 

Quindi fai di tutto per creare una comunità che accoglie coloro che sono fuori. Tieni conto del linguaggio che usi, sii risoluto nella tua ospitalità e strategico nella tua trasparenza. Come un panificio che emana il delizioso profumo del pane all’esterno, celebra pubblicamente la grazia e la trasformazione che stai sperimentando. Successivamente, quando hai fatto tutto questo, rendi chiaro il Vangelo e invita le persone a rispondere con pentimento e fede. Chiamali, non per fare una camminata nel corridoio, ma per entrare in quella porta stretta e godere delle ricchezze della fede nel Vangelo insieme a te.

 

Se la chiesa riesce a manifestare le cose buone del Vangelo, la barriera della fede non dev’essere rimossa, in quanto è proprio quella fede condivisa ed evidente che funziona con maggiore potenza, per invitare le persone all’interno.

 

 

Traduzione a cura di Sharon Viola

Tematiche: Chiesa, Conversione, Cristianesimo, Cultura e Società, Esempio, Frequenza in chiesa, Membri di chiesa, Pastorato, Salvezza, Unità, Vangelo, Vita Cristiana

Michael Lawrence

Michael Lawrence

 

È il pastore senior della “Hinson Baptist Church” di Portland, in Oregon.

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