Gli scopi dell’esegesi biblica

 

 

È incredibile pensare che nella Bibbia noi ascoltiamo la Parola di Dio ed è impossibile che l’esegeta non tremi mai nel suo lavoro. Dio non ha premura per lui e non raggiungerà mai nulla anche se scrivesse mille libri.

 

Io credo fortemente che la Bibbia sia la Parola di Dio. Pertanto, devo definire il fine ultimo dell’esegesi in modo da abbracciare non solo la mente, ma anche il cuore. Le Scritture mirano a influenzare i nostri cuori e a cambiare il modo in cui percepiamo Dio e la Sua volontà.

 

L’esegeta, che crede che questo scopo sia quello del Dio vivente per la nostra epoca, non può accontentarsi di scoprire semplicemente ciò che le Scritture originariamente vogliono dire. Egli deve mirare, nella sua esegesi, ad aiutare a raggiungere il fine ultimo della Scrittura: il suo significato attuale per la fede. È volontà di Dio che la Sua Parola sgretoli i sentimenti di arroganza e fiducia in se stessi e che dia speranza ai poveri di spirito.

” Il Signore, Dio, mi ha dato una lingua pronta, perché io sappia aiutare con la parola chi è stanco ” (Isaia 50:4).

 

L’esegesi che non tocca prima o poi le nostre emozioni e, attraverso di noi, le emozioni degli altri, è in definitiva un fallimento perché non raggiunge l’effetto che la Scrittura dovrebbe avere.

” Poiché tutto ciò che fu scritto nel passato, fu scritto per nostra istruzione, affinché, mediante la pazienza e la consolazione che ci provengono dalle Scritture, conserviamo la speranza ” (Rm 15,4).

 

Pertanto, l’esegesi biblica dovrebbe essere l’enzima intellettuale che trasforma lo stupore delle nostre emozioni mondane e futili in una speranza profonda, gioiosa e viva.
Gesù disse: ” Vi ho detto queste cose, affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia completa ” (Giovanni 15:11).

 

L’erudizione biblica che non condivide questo obiettivo funziona male per due motivi: alcuni spengono i bagliori delle loro emozioni a causa di una frigida indifferenza e altri si alienano poiché non spengono il fuoco delle proprie emozioni. Tutto questo non sarà vero se l’esegesi biblica è trattata per quello che è veramente, ovvero funzionare come catalizzatore cognitivo che innesca una combustione di gioia divina nel cuore umano. La teologia si trasforma molto rapidamente in chiacchiere inutili se non fa nascere nel cuore la dossologia. Non c’è motivo per cui il più rigoroso studioso biblico non possa e non debba dire con Jonathan Edwards:

 

“Dovrei pensare a me stesso mentre compio il mio dovere,

per elevare il più possibile i sentimenti dei miei ascoltatori,

a condizione che essi siano colpiti da nient’altro

se non la verità e con emozioni che non sono contrarie

alla natura di coloro che sono raggiunti”.

 

Naturalmente, definire gli obiettivi finali dell’esegesi biblica in questo modo presuppone che l’esegeta sia convinto che le Scritture trasmettano la verità. Purtroppo, molti esegeti non condividono questa convinzione. Così, l’obiettivo che ho descritto finora non si applica a loro. Ecco perché l’ho descritto come un obiettivo finale.

 

C’è un scopo più immediato che io, come evangelico, condivido con tutti i buoni esegeti, che credano o meno che le Scritture siano vere. Entrambi vogliamo capire e affermare con precisione ciò che gli autori biblici originali hanno voluto comunicare. Una persona che non ha alcun interesse a confessare la verità della Bibbia può essere in grado di capire e riaffermare il significato dell’autore originale con la stessa precisione di un esegeta che crede che la Bibbia sia vera. Questo è il motivo per cui possiamo fare un uso proficuo dell’erudizione biblica da parte di tutti i tipi di persone.

Ma aggiungo questa nota per evitare confusione: gli obiettivi che sto descrivendo sono quelli che penso debbano essere fissati in vista della mia convinzione intorno alla verità della Bibbia. In quanto tali sono diversi dagli scopi degli esegeti che non condividono questa convinzione, ma si sovrappongono condividendo questa convinzione.

 

 

“Ecco su chi io poserò lo sguardo: su colui che è umile, che ha lo spirito afflitto e trema alla mia parola” (Isaia 66:2)

 

 

 

L’intelletto

Mi sono riferito all’esegesi come un enzima intellettuale e un catalizzatore cognitivo. Questo significa che l’esegeta è inevitabilmente una sorta di intellettuale. Si occupa molto degli aspetti relativi alla mente. La ragione più ovvia è che la verità che gli sta a cuore viene a lui in un libro divinamente ispirato. Ma un libro deve essere letto e una buona lettura è un atto intensamente intellettuale.

 

Un evangelico crede che Dio si sia umiliato non solo nell’incarnazione del Figlio, ma anche nell’ispirazione delle Scritture. La mangiatoia e la croce non erano sensazionali e nemmeno la grammatica e la sintassi lo sono. Ma questo è il modo in cui Dio ha scelto di rivelare se stesso. Un povero contadino ebreo e una frase hanno questo in comune: sono entrambi umani ed entrambi ordinari. Che il povero contadino fosse Dio e la frase sia la Parola di Dio non cambia questo fatto. Quindi, se Dio si è umiliato per rivestirsi di carne umana e parlare un linguaggio umano, guai a noi se con arroganza pretendiamo di ignorare l’umanità di Cristo e la grammatica della Scrittura.

 

Non è sufficiente dire che la rivelazione di Dio nelle Scrittura viene a noi attraverso il linguaggio umano: viene attraverso il linguaggio di particolari uomini di particolari epoche e luoghi particolari. Non esiste un linguaggio distintamente divino in termini di convenzioni linguistiche. Cioè, quando Dio parlava attraverso gli uomini, Egli non ha sempre usato lo stesso linguaggio o lo stesso stile o lo stesso vocabolario. Piuttosto, tutte le prove indicano il fatto che Dio si è sempre avvalso della lingua, dello stile, del vocabolario e degli usi particolari dei singoli scrittori biblici. Anche nei discorsi profetici in cui Dio è citato direttamente, sono presenti tratti linguistici che distinguono un autore dall’altro.

 

 

Le implicazioni di questo, per fissare il nostro obiettivo nell’esegesi, sono cruciali, e ora permettetemi di illustrarle. Alla luce di questa concezione di ispirazione, se vogliamo interpretare ciò che Dio intende con la parola “saggezza” in Giacomo 1:5, non dobbiamo imporre il significato di “saggezza” di Proverbi 8. Cioè, non dobbiamo presupporre che, poiché questi due usi di “saggezza” abbiano lo stesso autore divino, avranno probabilmente lo stesso significato. Piuttosto, riconosciamo che poiché Dio si avvale delle convenzioni linguistiche dei suoi singoli portavoce della rivelazione, faremmo meglio leggere Giacomo 3:15 per vedere come Giacomo impiega la parola “saggezza” e scoprire così l’intenzione di Dio.

 

Concludo, quindi, che il significato di Dio nella Scrittura è accessibile solo attraverso le particolari convenzioni linguistiche dei vari autori umani. La mia fede nell’ispirazione, quindi, è una fede che cogliere ciò che questi autori umani hanno voluto comunicare nella loro particolare situazione storica è anche cogliere l’intenzione di Dio per quella situazione. Di conseguenza, l’obiettivo più immediato dell’esegesi è capire ciò che gli autori biblici hanno voluto comunicare nella loro situazione. L’obiettivo è vedere la realtà attraverso gli occhi di un’altra persona.

 

Questo ha due ulteriori implicazioni

Per coloro che pensano che la Bibbia sia infallibile e autorevole in materia di fede e pratica, una buona esegesi diventa un compito molto impegnativo poiché richiede che le nostre idee passino in secondo piano. Il modo in cui sentiamo e pensiamo alla vita è limitato quando ci permettiamo di ascoltare ciò che l’autore sente e pensa. Una buona esegesi infatti diventa una minaccia al nostro orgoglio. Con essa, corriamo il rischio di scoprire onestamente che la visione profetica e apostolica della vita è diversa dalla nostra, così che la nostra visione – e con essa il nostro orgoglio – deve crollare.

 

Noi creature decadute, che amiamo così tanto la nostra gloria, potremo mai produrre una buona esegesi? Non useremo forse ogni concessioni per nascondere la nostra ignoranza o ribellione? Non torceremo e distorceremo il significato della Scrittura in modo che sostenga sempre il nostro punto di vista e il nostro ego? Sappiamo tutti che questo accade purtroppo ogni giorno. Ma deve sempre accadere?

 

È proprio a questo punto che credo che lo Spirito Santo svolga un ruolo cruciale nel processo esegetico per il credente fedele. Egli non sussurra all’orecchio il significato di un testo ,ma si preoccupa del testo che ha ispirato e non ignora lo studio di esso.

L’opera primaria dello Spirito Santo nell’esegesi infatti è di abolire l’orgoglio e l’arroganza che ci impediscono di essere aperti alle Scritture. Lo Spirito Santo ci rende disponibili all’apprendimento perché ci rende umili. Ci fa confidare completamente nella misericordia di Dio in Cristo per la nostra felicità, così che non ci sentiamo minacciati se una delle nostre opinioni si rivela sbagliata. La persona che si riconosce finita e indegna, e che quindi si rallegra della misericordia di Dio, non ha nulla da perdere quando il suo ego è minacciato.

 

Il frutto dello Spirito è l’amore. L’amore è fondamentale per l’esegesi. L’amore non cerca il proprio interesse e non si gonfia. Al contrario, l’amore si rallegra nella verità. Questo è il segno del buon esegeta. Non cerca il proprio, ma ricerca la verità. Se la verità che trova è in conflitto con la sua idea, si rallegra di aver trovato la verità e riconosce umilmente che il suo pensiero è sbagliato.

 

Lo Spirito Santo rende possibile l’esperienza esaltante della crescita. Solo la mente aperta e umile cresce veramente nella comprensione della dottrina. La mente orgogliosa è più interessata a proteggere se stessa che a crescere e correggersi. Deve quindi rimanere piccola. Le persone arroganti sono sempre persone immature. Le persone umili sembrano piccole, ma stanno ereditando il mondo intero.

 

Così, mentre una buona esegesi è umiliante, è anche in continua crescita. Ci riporta alla nostra vera piccolezza in modo che possiamo vedere e godere della magnifica verità eterna rivelata nella Scrittura.

 

Una seconda implicazione che deriva dal nostro obiettivo nell’esegesi è che essa comporta ciò che tutte le letture comportano, cioè il lavoro intellettuale e spesso noioso di interpretare le convenzioni linguistiche di un autore. Diventare un buon esegeta significa semplicemente continuare ad affinare l’abilità che abbiamo cominciato ad imparare all’età di tre anni. Allora lottavamo con: “I capelli di Daniela sono ricci”. Ora lottiamo con: “Dio ha tanto amato il mondo”. Poi abbiamo chiesto alla nostra mamma cosa significa “arricciato”, oggi invece usiamo concordanze e commentari.

 

Dio ci ha parlato in lingue scritte, umane. Non possiamo afferrare il significato del linguaggio se non comprendiamo le convenzioni linguistiche utilizzate da un autore biblico. Pertanto, dobbiamo fare ogni sforzo per trattare la Bibbia grammaticalmente (e storicamente, poiché l’uso specifico del linguaggio di un autore è determinato dalla sua situazione specifica nella storia).

 

 

Traduzione a cura di Andrea Lavagna

Il presente articolo è tratto da Expositor Magazine, May-June 2016, n. 11.
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Tematiche: Esegesi biblica, La predicazione espositiva, Predicazione

John Piper

John Piper

È il fondatore di Desiring God, per il quale ricopre anche il ministero di insegnante, inoltre, è il rettore del Bethlehem College & Seminary. Ha servito per trentatré anni come pastore presso la chiesa battista Bethlehem Baptist Church di Minneapolis, in Minnesota e ha scritto più di cinquanta libri, tra cui e Non sprecare la tua vita (Ed Coram Deo), Rischiare è giusto (Ed Coram Deo), Coronavirus e Cristo (Ed Coram Deo), Stupefatto da Dio (Ed Coram Deo) e Desiderare Dio.

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