Il retroterra della Riforma: papi, sacerdoti e purgatorio

 

 

Tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI, il vecchio mondo sembrava lasciare il passo a un nuovo mondo: il potente Impero bizantino, ciò che restava della Roma imperiale, era caduto. Poi, Colombo scoprì un nuovo mondo nelle Americhe, Copernico capovolse la concezione dell’universo con il suo eliocentrismo, e Lutero riformò letteralmente il Cristianesimo.

Tutte le vecchie fondamenta che un tempo sembravano così solide e sicure erano ora crollate in questo turbinio di cambiamenti, lasciando spazio a una nuova èra in cui le cose sarebbero state molto diverse.

Guardandoci indietro, sembra impossibile anche soltanto immaginare il mondo di quell’epoca. “Medievale” – la sola parola richiama alla mente immagini cupe e gotiche di monaci deliranti che cantavano nei chiostri e di contadini superstiziosi in rivolta.

Tutto molto strano. Soprattutto per occhi moderni: mentre noi oggi abbiamo una società che punta all’uguaglianza democratica, loro avevano invece una concezione gerarchica di ogni cosa. Mentre noi viviamo nutrendo, curando e coccolando il nostro io, loro cercavano invece di mortificare questo “io” in tutti i modi (o, almeno, ammiravano chi ci riusciva). La lista delle differenze può proseguire a lungo. Tuttavia, era questo il contesto della Riforma, il contesto per cui le persone si sono tanto appassionate alla teologia.

La Riforma fu una rivoluzione, e le rivoluzioni sono lotte, non solo per ottenere qualcosa, ma anche per contrastare qualcosa. In questo caso, si trattava di contrastare il vecchio mondo del Cattolicesimo Romano medievale.

 

Com’era dunque essere cristiani un paio di secoli prima della Riforma?

Si può facilmente immaginare come tutte le strade del Cattolicesimo Romano medievale portassero a Roma. Si credeva che l’apostolo Pietro, al quale Gesù disse: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa”, fosse stato martirizzato e sepolto proprio lì, permettendo alla chiesa di essere letteralmente edificata su di sé. E così, come un tempo l’Impero romano vedeva Roma come madre e Cesare come padre, ora l’impero cristiano della Chiesa guardava ancora Roma come propria madre e a ognuno dei successori di Pietro come padre, da cui appunto il nome di “papa”. C’era un’unica e un tantino imbarazzante eccezione: la Chiesa Ortodossa d’Oriente, che si era separata dalla chiesa di Roma nell’XI secolo; ma, si sa, ogni famiglia ha la sua pecora nera. A parte questo, tutti i cristiani riconoscevano Roma e il Papa come i propri insostituibili genitori. Senza il Papa come padre, non poteva esserci la Chiesa; senza la madre Chiesa, non poteva esserci salvezza.

 

Il Papa era considerato il “vicario” (o rappresentante) di Cristo sulla terra e, come tale, era lui il canale attraverso il quale scorreva tutta la grazia di Dio. Egli aveva il potere di ordinare i vescovi, che a loro volta potevano ordinare i sacerdoti: e tutti loro – il clero – erano gli unici ad avere l’autorità di aprire i “rubinetti della grazia”. Quei rubinetti erano i sette sacramenti: il battesimo, la cresima la comunione, la penitenza, il matrimonio, l’ordine sacro e l’estrema unzione. A volte ci si riferiva ai sacramenti come alle sette arterie del Corpo di Cristo, attraverso le quali veniva pompata la linfa vitale della grazia di Dio. Che tutto questo apparisse piuttosto meccanicistico era esattamente quello che si voleva, perché le masse dei popolani, analfabete e senza istruzione, erano considerate incapaci di avere una fede esplicita.

Così, mentre una “fede esplicita” era considerata desiderabile, anche una “fede implicita”, nella quale un individuo andava in chiesa e riceveva i sacramenti, era considerata perfettamente accettabile. Se si mettevano sotto i rubinetti, ricevevano la grazia. Era attraverso il battesimo che le persone (generalmente da neonate) venivano ammesse all’interno della Chiesa per gustare la grazia di Dio. Ma era la Messa a essere davvero centrale nell’intero sistema. Ciò diventava chiaro quando uno entrava nella propria chiesa locale: l’intera architettura conduceva verso l’altare, sul quale si celebrava la Messa.

Ed era chiamato “altare” a giusta ragione, perché durante la Messa il corpo di Cristo sarebbe stato nuovamente offerto in sacrificio a Dio. Era attraverso questo sacrificio “incruento” offerto ogni giorno, replicando il sacrificio “cruento” di Cristo sulla croce, che l’ira di Dio nei confronti del peccato si sarebbe placata. Ogni giorno Cristo sarebbe stato riofferto a Dio come sacrificio di espiazione. Era così che venivano gestiti i peccati quotidiani. E tuttavia, non era ovvio che mancasse qualcosa a quel sacrificio, dato che il corpo di Cristo che non era sull’altare, e il sacerdote stava maneggiando soltanto del semplice pane e del vino? Ecco allora la geniale trovata della dottrina della Transustanziazione! Secondo Aristotele, ogni cosa ha la propria “sostanza” (realtà interna) e un proprio “accidente” (apparenza). La sostanza di una sedia, per esempio, può essere il legno, mentre il suo accidente potrebbe essere o il suo colore marroncino o la sua sporcizia. Vernicia la sedia, e i suoi “accidenti” muteranno.

 

La Transustanziazione immaginava l’opposto: nella Messa, la “sostanza” del pane e del vino si trasforma letteralmente nel corpo e nel sangue di Cristo, mentre gli “accidenti” originali del pane e del vino rimangono immutati. Sebbene tutto questo potesse apparire un po’ una forzatura, circolavano abbastanza racconti da convincere i dubbiosi: cioè, storie di persone che avevano visto sangue vero nel calice, o vera carne umana sul piattino, e così via.

Il momento della trasformazione veniva quando il sacerdote pronunciava in latino le parole di Cristo: Hoc est corpus meum (“Questo è il mio corpo”). Poi, le campane della chiesa suonavano, e il sacerdote sollevava il pane. Normalmente, la gente mangiava quel pane soltanto una volta all’anno (ma non poteva mai bere il vino dal calice – dopotutto, che cosa sarebbe accaduto se qualche contadinotto maldestro avesse rovesciato per terra il sangue di Cristo?), ma la grazia sopraggiungeva dando una semplice occhiata al pane sollevato dal sacerdote. È comprensibile che i più devoti correvano con fervore da una chiesa all’altra per assistere a più Messe, e quindi ricevere più grazia. La Messa era officiata in latino. Ovviamente, la gente non capiva una parola. Il problema era che nemmeno molti membri del clero capivano. Per loro, era più facile imparare a memoria il copione della Messa, piuttosto che imparare una nuova lingua.

Così, quando i parrocchiani udivano “Hocus pocus” anziché Hoc est corpus meum, chi sa di chi era l’errore? Perfino i preti sbagliavano le frasi. Ora, senza capire il significato delle parole, era difficile per i comuni parrocchiani riuscire a distinguere l’ortodossia cattolica romana dalla magia e dalla superstizione. Per loro, il pane consacrato diventava un talismano di potenza divina che poteva essere portato in giro per scongiurare incidenti; o poteva essere dato ad animali malati come medicina, o piantato per favorire un buon raccolto.

La Chiesa era permissiva nei riguardi di questo cristianesimo popolare semi-pagano, ma, a testimonianza di quanto importante fosse diventata la Messa, arrivò a decidere di contrastare tali eccessi: nel 1215, il Concilio Lateranense IV sancì che il pane e il vino trasformati dovessero “esser conservati scrupolosamente sotto chiave, perché nessuna mano temeraria possa impadronirsi di essi profanandoli con usi innominabili”.

 

A sostenere l’intero sistema e la mentalità del Cattolicesimo Romano medievale vi era una concezione della salvezza che risaliva ad Agostino (354–530) basata sulla sua teologia dell’amore. (È ironico pensare che questa teologia dell’amore abbia finito poi per ispirare una grande paura!) Agostino insegnava che noi esistiamo allo scopo di amare Dio. Ma, poiché non siamo in grado di farlo per natura, dobbiamo pregare che Dio ci aiuti.

Ed Egli lo fa “giustificandoci”, dice Agostino, mediante l’amore che Egli stesso riversa nel nostro cuore (Romani 5:5). Questo, si diceva, è l’effetto della grazia che Dio elargisce tramite i sacramenti. Rendendoci sempre più amorevoli, sempre più giusti, Dio ci “giustifica”. Così, la grazia di Dio era il carburante necessario per diventare persone migliori, più giuste e amorevoli.

E, secondo Agostino, era questo il tipo di persona che alla fine meritava la salvezza. Ecco ciò che intendeva Agostino quando parlava di salvezza per grazia. Parlare di Dio che riversa la Sua grazia così da farci diventare persone amorevoli e meritare la salvezza, probabilmente suonava molto bene in bocca ad Agostino. Tuttavia, nel corso dei secoli, questo pensiero assunse un tono più cupo. Nessuno voleva che diventasse così. Anzi, si voleva il contrario: si parlava ancora di come agisse la grazia di Dio in modo attraente e ottimistico. “Dio non negherà la grazia a coloro che fanno del loro meglio” era lo slogan di incoraggiamento sulle bocche dei teologi del Medioevo. E tuttavia, come si faceva a capire se si stava facendo del proprio meglio? Come si faceva a sapere se si era diventati il tipo di persona giusta che meritava la salvezza?

 

Nel 1215, al Concilio Lateranense IV fu presa una decisione che si sperava fosse di aiuto a tutti quelli che volevano essere “giustificati”: si richiese che tutti i cristiani (pena l’eterna dannazione) confessassero regolarmente i propri peccati a un prete. In tal modo, la coscienza poteva essere analizzata in cerca di peccati e pensieri malvagi, allo scopo di estirpare il male e rendere più giusto il cristiano. L’effetto di tale esercizio, comunque, era tutt’altro che rassicurante per coloro che lo prendevano sul serio.

Usando un lungo elenco ufficiale, il prete poneva domande del tipo: “Le tue preghiere, elemosine e altre attività religiose sono fatte per nascondere i tuoi peccati e far colpo sugli altri, anziché compiacere Dio?”; “Hai amato parenti, amici o altre creature più di Dio?”; “Hai mormorato contro Dio per il maltempo, la malattia, la povertà, la morte di un bambino o di un amico?”. Alla fin fine, risultava evidente che la persona non era affatto giusta né amorevole, ma piuttosto una massa di brutti pensieri. L’effetto prodotto era profondamente fastidioso, come si può leggere nell’autobiografia di Margery Kempe, una donna di Norfolk (Gran Bretagna) del XV secolo. Dice che una volta lasciò il confessionale talmente terrorizzata dalla dannazione che avrebbe colpito una peccatrice come lei, che cominciò a vedere demonî che la circondavano e l’afferravano, e la costringevano a graffiarsi e a mordersi da sola.

È facile per la nostra mentalità odierna attribuire questi comportamenti a un’instabilità psichica. Tuttavia, era evidente che l’esaurimento nervoso di Margery fosse comunque causato dal fatto che stava prendendo sul serio la teologia del tempo. Lei sapeva, dopo la confessione, di non essere abbastanza “giusta” da meritare la salvezza. Ovviamente, secondo l’insegnamento ufficiale della chiesa, era abbastanza chiaro che nessuno poteva morire sufficientemente giusto da meritarsi la piena salvezza.

 

Ma non c’era da preoccuparsi più di tanto, visto che esisteva il Purgatorio. A meno che i cristiani non fossero morti senza pentirsi di qualche peccato mortale come l’omicidio (nel qual caso sarebbero andati dritti all’inferno), essi avrebbero avuto dopo la morte la possibilità di espiare un po’ alla volta i propri peccati in Purgatorio, prima di entrare in Paradiso pienamente purificati. Verso la fine del XV secolo, Caterina da Genova scrisse un Trattato sul Purgatorio, in cui esso viene descritto in termini altisonanti. In quel luogo, Caterina scriveva, le anime gustano e abbracciano i propri castighi spinte dal desiderio di essere depurate e purificate per Dio. Anime più mondane rispetto a quella di Caterina, comunque, tendevano a essere meno entusiaste di fronte alla prospettiva di migliaia o milioni di anni di punizione.

Anziché gioire davanti a questa prospettiva, la maggior parte delle persone cercava di accelerare il percorso nel Purgatorio, sia per sé sia per i propri cari. Oltre alle preghiere, potevano essere officiate anche delle Messe in favore delle anime del Purgatorio, all’interno del quale la grazia di quella particolare Messa poteva essere applicata direttamente all’anima defunta e tormentata.

Per questo motivo si sviluppò un vero e proprio business del Purgatorio: i ricchi costruivano cappelle in cui preti dedicati dicevano preghiere e Messe per le anime dei loro ricchi finanziatori o per i loro cari; i meno abbienti si costituivano in confraternite, per raccogliere il denaro necessario per quello stesso servizio. […]

 

 

 

Questo articolo è tratto dal libro La Fiamma Inestinguibile di Michael Reeves pubblicato da Coram Deo.

 

La fiamma inestinguibile

Tematiche: Cristianesimo, I nostri libri, Riforma

Michael Reeves

Michael Reeves

 

Vive nel Regno Unito e attualmente è presidente e professore di teologia alla Union School of Theology. Conferenziere internazionale, è autore di diversi libri tra i quali La fiamma inestinguibile, edito da Coram Deo.

 

 

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