Perché è difficile mollare per un pastore?
Il titolo di questo articolo è interessante. Perché mai un pastore dovrebbe avere difficoltà a lasciare il proprio ministero, a deporre i pesi, a rinunciare alle riunioni, a farsi da parte nelle situazioni critiche? Perché non dovrebbe passare volentieri il testimone a uomini più giovani?
Le ragioni possono essere molteplici: alcune riflettono un sano senso di responsabilità pastorale, altre rivelano un bisogno di crescere nella fiducia nel Signore.
A volte i pastori faticano a lasciar andare perché temono che la comunità non prospererà una volta che se ne saranno andati, specialmente se ci sono conflitti o situazioni irrisolte. Un pastore saggio, infatti, cercherà di ritirarsi in un momento in cui la chiesa vive una stagione particolarmente stabile e vitale, così da affrontare meglio la sfida del passaggio di guida.
Tuttavia, le cose non vanno sempre come previsto. Io, ad esempio, mi sono ritirato dalla Second Presbyterian Church il 5 febbraio 2017. Il giorno seguente, mentre mi dirigevo a Giacarta, in Indonesia, ho ricevuto una telefonata: uno dei membri dello staff era coinvolto in una relazione extraconiugale.
In quel momento, vi assicuro che non avevo affatto voglia di “lasciar andare” il mio ministero in quella chiesa! Comunque, l’ho fatto, perché avevamo formato uomini e donne capaci di affrontare situazioni simili e in effetti hanno reagito con grande saggezza.
A volte, le transizioni pastorali non vanno per il verso giusto e il pastore uscente fatica a lasciar andare quando vede soffrire le persone a lui care, ma, più spesso, la difficoltà nasce da lotte interiori. Ecco le principali che ho osservato nel tempo:
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Il pastore ha bisogno di controllare tutto
Non serve aggiungere altro.
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L’identità personale del pastore è troppo legata al suo ministero
Questa è forse la causa più insidiosa. Spero che giovani pastori e persone impegnate nel ministero a tempo pieno leggano queste righe: è fondamentale che la nostra identità primaria sia quella di figli di Dio, non di guide di un’opera. La vocazione precede la professione. Il nostro lavoro è il mezzo con cui ci sosteniamo, ma la vocazione è la chiamata a essere in Cristo, a seguirlo e a servirlo.
Ogni credente ha la medesima vocazione, ricevuta in modo irrevocabile al momento della conversione. Le professioni invece possono cambiare, secondo le circostanze, la saggezza, le inclinazioni e le opportunità. Sono sempre revocabili.
Non dobbiamo mai legare il nostro senso di valore a un ruolo, nemmeno a quello pastorale. Dobbiamo restare ancorati esclusivamente alla nostra chiamata in Cristo. L’apostolo Paolo scrive: “Vi esorto dunque… a comportarvi in maniera degna della vocazione che vi è stata rivolta” (Efesini 4:1), e ancora: “Preghiamo continuamente per voi affinché il nostro Dio vi renda degni della chiamata” (2 Tessalonicesi 1:11).
Più una persona ha bisogno del proprio ruolo per sentirsi realizzata, più ha smarrito il senso della sua vera vocazione. Questo compromette seriamente l’efficacia del suo servizio e la sua capacità di voltare pagina guardando al futuro.
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Il pastore non ha preparato adeguatamente la congregazione al suo congedo
Talvolta è difficile lasciar andare perché si lascia troppo presto. Uno dei motivi per cui per me è stato relativamente semplice concludere un ministero durato 22 anni è che avevamo preparato con attenzione la mia uscita, tenendo al centro il bene della chiesa.
La leadership era forte, abbiamo dedicato due anni a formare i responsabili per il periodo di transizione e la comunità era serena. Ho annunciato il mio pensionamento con due anni di anticipo: in quel periodo ci siamo impegnati a estinguere ogni debito, abbiamo condotto un’ampia valutazione interna della chiesa ed eletto un comitato di ricerca qualificato che ha iniziato il proprio lavoro un anno prima del mio ritiro.
In breve, ho potuto lasciare senza preoccupazioni perché avevamo pianificato tutto nei dettagli.
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Il pastore non ha preparato bene il proprio ministero futuro prima di lasciare il precedente
A volte un pastore fatica a lasciar andare il ministero passato perché non ha ben pianificato ciò che verrà dopo. Si ritrova inattivo, poco coinvolto, annoiato e persino un po’ depresso. Ha già dormito fino a tardi per diversi giorni, ha passato molto tempo con i nipoti, ha fatto un paio di viaggi, si è riavvicinato a vecchi amici e ha persino migliorato il suo punteggio a golf, ma sente che manca qualcosa: l’opportunità di mettere al servizio della chiesa i doni pastorali che Dio gli ha affidato.
La buona notizia è che non è troppo tardi, ma chi è rivolto al passato difficilmente riuscirà a scoprire il sentiero più fecondo per servire nel futuro. Tre mesi prima di ritirarmi dalla Second Presbyterian, ho partecipato a un corso di formazione per pastori ad interim che mi ha preparato ai successivi sette anni di ministero.
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Il pastore non si fida pienamente del Signore per quanto riguarda il futuro
Quando un pastore fatica a lasciar andare, anche se lui stesso e i suoi collaboratori riconoscono che il tempo è arrivato, spesso questo rivela una carenza profonda nella sua vita spirituale, nella sua teologia e nella sua visione della chiesa.
A livello spirituale, ci siamo illusi arrogantemente di essere indispensabili al buon funzionamento della chiesa. A livello teologico, abbiamo dimenticato o trascurato il governo eterno di Dio. A livello ecclesiologico, ci siamo scordati a chi appartiene la chiesa. Noi siamo soltanto servi di Cristo.
Come ci ricorda Mosè: “I giorni dei nostri anni arrivano a settant’anni, o, per i più forti, a ottant’anni; e quel che ne fa l’orgoglio, non è che travaglio e vanità; perché passa presto, e noi ce ne voliamo via” (Salmo 90:10). Servire il Signore e il suo popolo attraverso il ministero pastorale è un privilegio meraviglioso. Ma è ancor più bello poter deporre tutto ai suoi piedi con fiducia, gioia e con la speranza viva di un futuro colmo della sua grazia e della sua gloria.
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