La cattività babilonese della Chiesa

 

 

Poco dopo l’inizio della Riforma, nei primi anni successivi all’affissione da parte di Lutero delle novantacinque tesi al portone della chiesa di Wittenberg, il riformatore tedesco scrisse una serie di trattati riguardo a diverse tematiche.

Uno dei più provocatori fu La Cattività Babilonese della Chiesa, dove l’autore considerò il periodo storico dell’Antico Testamento durante il quale Gerusalemme venne distrutta dagli eserciti invasori babilonesi e le persone più importanti del popolo furono condotte in esilio.

Nel sedicesimo secolo, Lutero riprese l’immagine della cattività babilonese storica e l’applicò ai suoi giorni, parlando così di una nuova cattività babilonese della Chiesa. Si riferiva a Roma, la Babilonia contemporanea che teneva il Vangelo in ostaggio rifiutando la verità biblica della giustificazione. Si può immaginare quanto fosse aspra la controversia e come il titolo dell’opera si sarebbe rivelato polemico in quel periodo. Non si sosteneva che la Chiesa avesse semplicemente errato o si fosse smarrita; piuttosto, era caduta, trovandosi così a Babilonia, vale a dire schiava e in territorio pagano.

 

Spesso mi sono chiesto che direbbe Lutero se vivesse ai nostri giorni, venisse in contatto con la nostra cultura e considerasse, non tanto la comunità ecclesiastica liberale, quanto quella delle chiese evangeliche. Ovviamente non posso esprimermi in modo categorico riguardo a tale supposizione, tuttavia mi orienterei nei termini seguenti: se Martin Lutero vivesse oggi e volesse scrivere un trattato, l’opera avrebbe per titolo La Cattività Pelagiana della Chiesa Evangelica.

 

Lutero comprese che la dottrina della giustificazione scaturiva da una questione teologica sottostante, della quale trattò in modo esteso ne Il Servo Arbitrio[1]. La Riforma espresse cinque grandi solasola Scriptura, sola fide, solus Christus, soli Deo gloria, sola gratia – ed era ferma convinzione di Lutero che la questione di fondo fosse quella della grazia; sottostante alla dottrina della sola fide, vale a dire della giustificazione per sola fede, si collocava l’adesione primaria alla sola gratia, cioè il concetto della giustificazione per sola grazia.

 

Nell’edizione Fleming Revell de Il Servo Arbitrio, i traduttori J.I. Packer e O.R. Johnston hanno inserito un’introduzione teologica e storica, per certi versi provocatoria. Ne riporto la sezione conclusiva:

 

Tali realtà devono essere ponderate dai protestanti odierni. Con quale diritto possiamo definirci figli della Riforma? Gran parte del Protestantesimo contemporaneo non verrebbe approvato, tanto meno riconsciuto dai pionieri della Riforma. Il Servo Arbitrio espone chiaramente ciò che essi credevano riguardo alla salvezza dell’umanità perduta. Alla luce di ciò, siamo costretti a chiederci se il cristianesimo protestante, nel corso di questi ultimi cinquecento anni, non abbia tragicamente venduto la propria primogenitura. Il protestantesimo odierno non è forse divenuto più erasmiano che luterano? Noi stessi non cerchiamo forse troppo spesso di minimizzare e sorvolare le differenze dottrinali, in nome di una concordia inter-denominazionale? Possiamo dirci innocenti dell’indifferenza dottrinale di cui Lutero accusò Erasmo? Crediamo ancora che la dottrina sia importante?

 

Dal punto di vista storico, è un dato di fatto che Lutero, Calvino, Zwingli e tutti i teologi di spicco della prima fase della Riforma si trovarono all’unisono proprio su questo punto. Su altre questioni mantennero delle divergenze, ma furono del tutto concordi circa la condizione disperata dell’uomo nel peccato e la sovranità di Dio nella grazia. Per tutti loro queste dottrine erano la vita stessa della fede cristiana. Un editore moderno delle opere di Lutero scrive:

 

Chiunque termini di leggere questo libro senza rendersi conto che la teologia evangelica si regge, o crolla, sulla dottrina del servo arbitrio, lo ha letto in vano. La dottrina della giustificazione gratuita per sola fede, che divenne l’occhio del ciclone di tutta la controversia della Riforma, viene spesso considerata come il cuore della teologia riformata: questo, però, non è accurato. La verità è che il pensiero dei riformatori fu centrato in effetti sulla contesa di Paolo, ripresa da Agostino ed altri, secondo cui tutta la salvezza del peccatore è per sola e libera grazia; la dottrina della giustificazione per fede fu per loro importante in quanto salvaguardava il principio della grazia sovrana. La sovranità della grazia trovò espressione nel loro pensiero ad un livello ancora più profondo, vale a dire quello della dottrina della rigenerazione monergistica.

 

Ciò significa che la fede che riceve Cristo per la giustificazione è essa stessa il dono gratuito di un Dio sovrano. Il principio della sola fide non viene compreso correttamente fin tanto che non si coglie ancorato al principio più ampio della sola gratia. Qual è la fonte della fede? Ė forse lo strumento conferito dal Signore col quale si riceve la giustificazione che viene da Lui, oppure si tratta di una condizione della giustificazione, il cui adempimento è lasciato all’uomo? Riuscite a cogliere la differenza? Ve lo spiego in termini semplici. Recentemente ho ascoltato un evangelista dire: “Se Dio facesse mille passi per avvicinarsi a voi per la vostra redenzione, resta il fatto che, in ultima istanza, voi dovete compiere il passo decisivo per essere salvati”. Prendete in considerazione l’affermazione pronunciata dall’evangelista americano più amato del ventesimo secolo, Billy Graham, che sostiene con grande slancio: “Dio compie il 99%, ma voi dovete compiere quell’ultimo 1%”.

 

 

Cos’è il pelagianesimo?

Torniamo ora al titolo immaginario, La Cattività Pelagiana della Chiesa: di che stiamo parlando?

 

Pelagio fu un monaco britannico vissuto nel quinto secolo, contemporaneo del più grande teologo del primo millennio della storia della Chiesa, se non di tutti i tempi, vale a dire Aurelio Agostino, Vescovo di Ippona, in Africa settentrionale. Conosciamo sant’Agostino per le sue grandi opere teologiche, come La Città di Dio e Le Confessioni, annoverate fra i classici del cristianesimo.

 

Oltre ad essere un teologo brillante e possedere un intelletto prodigioso, Agostino fu anche un uomo di profonda preghiera e spiritualità. In una delle sue famose preghiere pronunciò un’affermazione apparentemente innocua, quando, rivolgendosi a Dio, disse: “Concedi ciò che vuoi comandare, e comanda ciò che desideri”. Ora, se ascoltaste una preghiera come questa, questo ti darebbe apoplessia? Di sicuro fece montare Pelagio su tutte le furie. Quando ne venne a conoscenza, protestò in modo veemente e si appellò addirittura a Roma affinché la censurasse. A sostegno della propria tesi, Pelagio disse: “Stai forse affermando, Agostino, che Dio possieda il diritto inerente di comandare alle proprie creature tutto quello che desidera? Fin qui nessuna obiezione. Dio, come creatore dei cieli e della terra, possiede il diritto inerente di imporre obblighi alle Sue creature, dicendo loro: “Fai questo, non fare quello”: “Comanda ciò che desideri” è una preghiera perfettamente legittima”.

 

Tuttavia, Pelagio aborrì la seconda parte della preghiera, là dove Agostino chiese: “Concedi ciò che vuoi comandare”. “Ma che stai dicendo?”, fu la replica del monaco britannico; “se Dio è giusto, retto e santo, e comandasse alla creatura di fare qualcosa, di sicuro quella creatura deve possedere in sé il potere, l’abilità morale, di compierlo, altrimenti Dio non lo esigerebbe affatto”. La sua polemica acquista ora un senso. Stando a Pelagio, la responsabilità morale implica, sempre e ovunque, la capacità morale, o, più semplicemente, l’abilità morale. Dunque, perché mai dovremmo pregare: “Signore concedimi, conferiscimi il dono di essere in grado di compiere ciò che mi comandi”? Pelagio ritenne che tale affermazione gettasse ombra sull’integrità di Dio stesso, il quale considererebbe le persone responsabili per qualcosa che non possono compiere.

 

Nel dibattito successivo, Agostino chiarì come Dio, alla creazione, non comandò ad Adamo ed Eva nulla che non fossero in grado di compiere. Quando la trasgressione entrò in scena e l’umanità cadde, la legge di Dio non fu abrogata ed il Signore non modificò le proprie esigenze sante, accomodandole alla condizione caduta ed indebolita della sua creazione. Dio punì la creazione col giudizio del peccato originale, talché chiunque nasce a questo mondo, dopo Adamo ed Eva, nasce già morto nel peccato. Il peccato originale non è il primo peccato, ma la sua conseguenza; si riferisce alla nostra corruzione inerente, per la quale nasciamo nel peccato e ne siamo anche concepiti. Noi non nasciamo in uno stato neutrale di innocenza; piuttosto, nasciamo in una condizione caduta e peccaminosa. Praticamente ogni chiesa nello storico Concilio Mondiale delle Chiese, ad un certo punto della loro storia e in qualche sviluppo dogmatico, ha articolato una qualche dottrina del peccato originale. Ė un aspetto della rivelazione biblica talmente chiaro, che la sua negazione implicherebbe il ripudio della valutazione biblica riguardo all’umanità.

 

Proprio questo fu il cardine della controversia fra Agostino e Pelagio nel quinto secolo. Pelagio sostenne che il peccato originale non esisteva. Il peccato di Adamo colpì lui, e lui solo. Non v’è alcuna trasmissione o trasferimento di colpa, di caduta o di corruzione alla progenie di Adamo ed Eva. Tutti nascono nello stesso stato di innocenza in cui fu creato Adamo. Stando a Pelagio, è possibile che una persona viva una vita di obbedienza a Dio, una vita di perfezione morale, senza alcun aiuto da parte di Gesù, né della grazia divina. Il monaco affermò che la grazia – ed è una distinzione chiave – facilita il conseguimento della giustizia. Che significa questo? Vuol dire che agevola, rende più facile ed accessibile, ma non è necessaria. Si può conseguire la perfezione anche senza. Pelagio affermò inoltre che la possibilità di vivere una vita perfetta, senza alcuna assistenza della grazia divina, non è solo teoretica, perché, in effetti, esistono persone che vi sono riuscite. “No, no, no, no”, replicò Agostino; “per natura siamo infetti dal peccato nel più profondo del nostro essere, talché nessun essere umano ha il potere morale di inclinare se stesso a cooperare con la grazia di Dio. La volontà umana, in conseguenza del peccato originale, mantiene il potere di compiere delle scelte, ma è schiava delle proprie inclinazioni e desideri malvagi”. Agostino descriverebbe la condizione dell’umanità caduta come l’incapacità di non peccare; alla caduta, l’uomo perde la sua abilità morale a compiere le opere di Dio e si trova prigioniero delle proprie inclinazioni malvage.

 

Nel quinto secolo la Chiesa condannò Pelagio come eretico. Il pelagianesimo venne condannato al Concilio di Orange, a quello di Firenze, a quello di Cartagine e, ironicamente, anche a quello di Trento nel sedicesimo secolo, coi primi tre anatemi dei Canoni della Sesta Sessione. Dunque, in modo coerente nel corso della propria storia, la Chiesa ha condannato categoricamente il pelagianesimo; con la sua negazione della condizione caduta della nostra natura, esso infatti nega la dottrina del peccato originale.

 

Ora, ciò che viene definito come semi-pelagianesimo, come si evince dal prefisso ‘semi’ fu una via media fra l’agostinianesimo ed il pelagianesimo. Stando al semi-pelagianesimo, vi fu la caduta, esiste il peccato originale, la natura costitutiva dell’umanità è stata modificata da questo stato di corruzione e tutti gli aspetti della nostra umanità sono stati significativamente indeboliti dalla caduta. Di conseguenza, nessuno può essere redento senza l’aiuto della grazia divina; quest’ultima non è tanto di ausilio, quanto assolutamente necessaria per la salvezza. Se è vero che siamo caduti da non poter essere salvati senza la grazia, non lo siamo al punto da non possedere l’abilità di accettare o di rifiutare la grazia che ci viene offerta. La volontà è indebolita, ma non in condizione di schiavitù. Al fondo del nostro essere permane un ambito di giustizia non intaccato dalla caduta. Da qui, da questo piccolo spazio di bene che rimane nell’anima, o nella volontà, procede la differenza determinante tra il cielo e l’inferno. E’ su tale ambito che si deve fare leva nel momento in cui il Signore intraprende i mille passi verso di noi; in ultima istanza, è proprio questo nostro passo che determina se andremo in cielo o all’inferno – l’esercizio o meno di quella giustizia residua al fondo del nostro essere. Per Agostino, questo ambito è mitologico ed inesistente; la volontà è in condizione di schiavitù e l’uomo è morto nei suoi falli e peccati.

 

Ironicamente, la Chiesa condannò il semi-pelagianesimo con la stessa veemenza con la quale aveva condannato il pelagianesimo. Eppure, quando si legge la comprensione cattolica del sedicesimo secolo riguardo a quanto accade alla salvezza, scopriamo come la Chiesa ripudiò sostanzialmente ciò che era stato insegnato sia da Agostino, sia da Tommaso d’Aquino. La Chiesa giunse alla conclusione che questa libertà non intaccata nella volontà umana permane, per cui l’uomo deve cooperare – ed assentire – con la grazia preveniente offerta dal Signore. Se esercitiamo tale volontà, se cooperiamo con il potere residuo in noi, saremo salvati. In tal modo, la Chiesa, nel sedicesimo secolo, riabbracciò il semi-pelagianesimo.

 

Alla Riforma, tutti i riformatori concordarono su un punto: l’inabilità morale degli esseri umani caduti ad inclinare se stessi alle realtà di Dio. Al fine della salvezza, tutti sono completamente dipendenti (non al 99%, bensì al 100%) dall’opera monergistica di rigenerazione per giungere alla fede; la fede stessa è un dono di Dio. Il punto non è che la salvezza ci viene offerta e che noi nasceremo di nuovo se scegliamo di credere. Noi non possiamo neanche credere fin quando Dio, nella sua grazia e misericordia, non cambia la disposizione delle nostre anime attraverso la sua opera sovrana di rigenerazione. In altri termini, ciò su cui i riformatori si mostrarono all’unisono fu il concetto per cui se un uomo non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio, meno che meno entrarvi. Come sostiene Gesù nel sesto capitolo del vangelo di Giovanni: “nessuno può venire a me, se non gli è dato dal Padre” (6:65) – la rigenerazione è la condizione necessaria per la fede e la salvezza.

 

 

Gli evangelici e la fede

L’evangelismo odierno, in modo quasi uniforme ed universale, insegna che affinchè una persona nasca di nuovo, deve prima esercitare la fede. In un sondaggio condotto da George Barna, più del 70% di “evangelici professanti” in America ha espresso il convincimento che l’uomo, al fondo, sia buono; in misura superiore all’80% si ritiene che Dio aiuti quanti si aiutano. Nessuna di queste due posizioni è semi-pelagiana: sono entrambe pelagiane. Ė la tesi di Pelagio quella che sostiene la bontà di fondo dell’uomo. C’è da ritenere che in almeno il 30% di quanti leggeranno questo articolo, se non di più, da un esame accurato del loro pensiero scaturirebbero cuori fermamente pelagiani. E’ una realtà che ci sovrasta, ci circonda e in cui siamo immersi. L’ascoltiamo ogni giorno, non solo nella cultura secolare, ma anche alla radio e alla televisione cristiana.

 

Nel diciannovesimo secolo vi fu in America un predicatore che divenne molto popolare e scrisse un libro di teologia, forte dei suoi studi in legge, in cui sposò in pieno la tesi pelagiana. Non rifiutò solo l’agostinianesimo, ma anche il semi-pelagianesimo, erigendosi così sul tema del “pelagianesimo non verniciato”. A suo dire, non vi fu alcuna caduta, né esiste il peccato originale; si scagliò contro la dottrina dell’espiazione sostitutiva di Gesù, cui aggiunse il ripudio della dottrina della giustificazione per sola fede, basata sull’imputazione della giustizia di Cristo. La tesi di fondo di questo predicatore rimarcò come noi non necessitiamo l’imputazione della giustizia di Cristo, dato che possediamo, in noi, la capacità di divenire giusti. La persona in questione fu Charles Finney, uno degli evangelisti più rispettati d’America. Ora, se Lutero aveva ragione nel sostenere che sola fide è il principio su cui la Chiesa si regge, o crolla, se era corretto da parte dei riformatori affermare che la giustificazione per sola fede è una verità essenziale del cristianesimo, al pari della dottrina dell’espiazione sostitutiva, l’unica conclusione cui possiamo giungere è che Charles Finney non era cristiano. Leggendo i suoi scritti non vedo alternativa. Eppure, questa persona si colloca nella galleria dei personaggi famosi del cristianesimo evangelico americano. Ė il santo patrono dell’evangelismo del ventesimo secolo: non stiamo parlando di un semi-pelagiano, bensì di un pelagianesimo non verniciato.

 

 

La giustizia residua

Un fatto è certo: si può essere puramente pelagiani, eppure del tutto accolti nel movimento evangelico odierno. L’evangelismo moderno guarda con sospetto alla teologia riformata, come se fosse un cittadino di terza classe.

 

Si potrebbe obiettare che l’analisi appena esposta sia eccessivamente polemica. Dopotutto, anche Billy Graham ed altri sostenevano la realtà della caduta, del bisogno di avere la grazia e dell’esistenza del peccato originale; i semi-pelagiani non concordano con la tesi pelagiana circa la condizione caduta della natura umana. Tutto ciò è vero e non suscita controversia. Resta però il problema di quella giustizia residua, dove l’uomo conserva l’abilità, da se stesso, di cambiare, di modificare, di inclinare, di orientarsi ad abbracciare l’offerta della grazia; questo rivela il motivo per cui, storicamente, il semi-pelagianesimo non viene definito come semi-agostinianesimo. Resta la divergenza col principio di fondo della schiavitù del cuore umano nel peccato – non si tratta tanto di una malattia che può rivelarsi mortale se non viene curata, quanto di una realtà di morte.

 

Mi è capitato di ascoltare un evangelista ricorrere a due analogie per descrivere ciò che accade alla nostra redenzione. Il peccato, disse, esercita su di noi una presa tale da potersi paragonare ad una persona incapace di nuotare che, caduta in acque mosse, sta affogando; solo le punte delle dita sono ancora sopra la superficie dell’acqua e a meno che qualcuno non intervenga a salvarla, non ha alcuna speranza di sopravvivenza: l’attende una morte certa. Se Dio non lancia un salvagente, quella persona non potrà essere recuperata. Ora, Dio non deve solo gettarle un salvagente nell’immediata vicinanza, ma deve lanciarlo proprio in corrispondenza delle dita, così da consentire alla persona di afferarlo. Il lancio deve essere del tutto millimetrico. Tuttavia, la persona affogherà comunque se non usa le dita e non si aggrappa al salvagente; solo così, il Signore la salverà. Senza quella piccola azione umana, la morte è certa.

 

Ecco la seconda analogia. Un uomo è gravemente ammalato, steso sul letto dell’ospedale ed affetto da una patologia mortale. Non v’è modo di guarirlo a meno che qualcuno arrivi con una terapia capace di salvarlo. Dio possiede la terapia ed arriva in quella stanza con il trattamento. L’uomo, però, è talmente debole da non riuscire neanche ad assumere il farmaco; il Signore deve metterlo nel cucchiaio, ma il paziente, in stato comatoso, non riesce neanche ad aprire la bocca. Allora il Signore si china verso di lui e gli apre la bocca; gli avvicina il cucchiaio alle labbra, ma l’uomo deve comunque inghiottire la medicina.

 

Se vogliamo ricorrere a delle analogie, dobbiamo essere accurati. L’uomo non sta semplicemente dibattendosi sull’onda delle acque: è come un cadavere in fondo al mare. Questo è il luogo dove eravate quando vi trovavate nella condizione di morti nei falli e nei peccati, seguendo l’andazzo di questo mondo, seguendo il principe della potestà dell’aria. Ma Dio, quando eravamo morti, ci ha vivificati con Cristo. Il Signore è sceso nella profondità del mare, ha recuperato quel corpo annegato, vi ha soffiato l’alito vitale e vi ha risuscitato dai morti. Il punto non è che voi stavate morendo in una camera dell’ospedale; piuttosto, quando siete nati, eravate un “morto in arrivo”. Questo è ciò che la Bibbia sostiene: che eravamo moralmente nati morti. Possediamo forse una volontà? Certo che la possediamo. Per Calvino tutti noi possediamo il libero arbitrio, se con tale espressione si intende una facoltà di scelta grazie alla quale abbiamo, in noi stessi, la capacità di preferire ciò che desideriamo. Al contrario, se per libero arbitrio intendiamo la capacità degli esseri umani caduti di inclinare se stessi ed esercitare la volontà di scelta a favore delle realtà divine, in assenza di una precedente opera monergistica di rigenerazione, allora, stando al riformatore francese, il libero arbitrio è un’espressione eccessivamente grandiosa per essere applicata all’uomo.

 

La dottrina semi-pelagiana del libero arbitrio, prevalente nel mondo evangelico odierno, è una concezione pagana che nega la schiavitù del cuore umano al peccato; tende a sottostimare la presa ferrea che il peccato esercita su di noi.

 

Nessuno di noi gradisce di vedere le realtà per quanto sono negative. La dottrina biblica della corruzione umana è truce. Non udiamo mai l’apostolo Paolo affermare: “Ebbene, è triste che nel mondo esista la realtà del peccato. Nessuno è perfetto, ma fatevi animo: in fondo, siamo tutti buoni”. Persino una lettura superficiale della Scrittura nega questa tesi.

 

Torniamo ora a Lutero. Qual è la fonte e lo status della fede? E’ forse lo strumento conferito dal Signore col quale si riceve la Sua giustificazione? Oppure si tratta di una condizione della giustificazione che noi siamo tenuti ad adempiere? La vostra fede è all’opera? Si tratta forse di quell’unica opera che Dio ci lascia compiere? Recentemente ho avuto un dibattito con alcune persone. Stavo argomentando la sola gratia ed uno degli ascoltatori si è risentito; mi ha chiesto: “sta cercando di dirmi che, in ultima istanza, è Dio a rigenerare, o meno, sovranamente il cuore dell’uomo?”.

 

Alla mia risposta affermativa, quella persona si è mostrata ancor più irritata. Gli ho chiesto: “lei è credente?”; “si”, mi ha risposto. “Alcuni dei suoi amici non fanno professione di fede?”; “certo”, è stata la sua replica. “Come mai lei è credente ed i suoi amici non lo sono? Forse perché lei è più giusto di loro?” Non essendo uno stupido, il mio interlocutore non si è avventurato in una risposta del tipo, “certo; ho fatto la cosa giusta, al contrario dei miei amici”. Quindi mi ha risposto: “Oh, no, no, no”. “Allora è perché lei è più sveglio di loro?”; “no”, mi ha detto.

 

Alla fine, però, non ha accettato il fatto che la questione ultima e decisiva è la grazia di Dio. Dopo un buon quarto d’ora, l’interlocutore ha affermato: “Va bene, lo ammetto. Sono credente per aver fatto la cosa giusta; ho dato la mia adesione, al contrario dei miei amici”.

 

Questa persona in che stava confidando per la propria salvezza? Non nelle sue opere in generale, ma in quella decisione che aveva preso. Era un protestante ed evangelico; tuttavia, la sua concezione della salvezza non differiva affatto da quella cattolica romana.

 

 

La sovranità di Dio nella salvezza

Il punto è questo: è parte del dono di Dio per la salvezza oppure è una forma di nostra contribuzione alla salvezza? La nostra salvezza è interamente opera di Dio, oppure dipende in ultima istanza da qualcosa che facciamo da noi stessi? Quanti sostengono la seconda tesi, finiscono col negare la condizione perduta dell’umanità nel peccato, affermando così l’autenticità di una certa forma di semi-pelagianesimo. Non sorprende come la teologia riformata successiva condannò l’arminianesimo, reputandolo, in principio, sia un ritorno a Roma con la trasformazione della fede in un atto meritorio, sia un tradimento della Riforma con la negazione della sovranità di Dio nella salvezza dei peccatori, vale a dire il principio teologico e religioso più profondo nel pensiero dei riformatori. In effetti, nella valutazione riformata, l’arminianesimo costituì la rinuncia del cristianesimo neotestamentario, a favore del giudaesimo del Nuovo Testamento. Infatti, affidarsi a sé stessi per la fede, in principio, non è per nulla diverso dall’affidarsi a sé stessi per le opere: l’uno è anti-cristiano quanto l’altro. Alla luce di quanto Lutero disse ad Erasmo, non ho dubbi sul fatto che avrebbe sottoscritto questa valutazione.

 

Eppure, il convincimento arminiano è di gran lunga maggioritario nei circoli evangelici contemporanei. Fin quando il semi-pelagianesimo – che al fondo è solo una forma appena velata di pelagianesimo autentico – prevarrà nella Chiesa, non so proprio cosa dobbiamo aspettarci. Di sicuro, però, qualcosa non accadrà: non avremo una nuova Riforma. Se non umiliamo noi stessi e non comprendiamo che l’uomo non possiede alcuna giustizia residua, talché siamo totalmente dipendenti dalla pura grazia di Dio per la nostra salvezza, non ci riposeremo mai sulla grazia, né ci rallegreremo nella grandezza della sovranità di Dio. Non ci scrolleremo di dosso l’influenza pagana dell’umanesimo, teso ad esaltare e collocare l’uomo al centro della religione. In queste condizioni, non vi sarà una nuova Riforma, in quanto al cuore dell’insegnamento riformato si colloca l’adorazione e la gratitudine riconosciuta al Signore e a Lui solo.

 

Soli Deo gloria, a Dio solo sia la gloria.

 

 

[1] Martin Lutero, Il Servo Arbitrio, Claudiana, Torino, 1993.

 

 

 

Tematiche: Riforma, Storia della Chiesa, Teologia

RC Sproul

RC Sproul

(1939-2017)

 

E’ stato il fondatore e presidente della Ligonier Ministries (dal 1971), un ministero internazionale situato in Orlando (Florida, Stati Uniti). E’ stato co-pastore della Saint Andrew’s Chapel a Sanford, cancelliere del Reformation Bible College e editore esecutivo della rivista mensile Tabletalk.

I suoi insegnamenti si possono ascoltare sul programma Radio Renewing Your Mind with Dr. R.C. Sproul.

Sproul ha prodotto più di 300 serie di lezioni ed è autore di innumerevoli libri diffusi in tutto il mondo.

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